KeyWords: abbandono, incuria, ipercura, discuria, madre
Abstract
Dal punto di vista della Psicologia Analitica Junghiana e della sua famosa allieva Marie Louis von Franz, attraverso le fiabe è possibile osservare l’espressione più pura dei processi psichici dell’inconscio collettivo,”esse rappresentano gli archetipi in forma semplice e concisa” (von Franz 1970).
Analizzando la fiaba di Hänsel e Gretel dei fratelli Grimm (1951) si intravedono gli aspetti archetipici dell’ombra del materno, in quanto la fiaba ci presenta una situazione caratterizzata dall’assenza della madre, dalla presenza di una matrigna che sollecita il padre ad abbandonare i bambini nel bosco, dalla presenza di un paterno “povero” e dalla strega che nutre e alimenta i bambini in maniera sregolata. Questi aspetti, esemplificativi tanto di un materno non soccorrevole e non amorevole, quanto di un paterno non adeguato, secondo gli scriventi fanno parte della cosiddetta “patologia delle cure” ovvero “quelle condizioni in cui i genitori, o le persone legalmente responsabili del bambino, non provvedono adeguatamente ai suoi bisogni, fisici e psichici, in rapporto al momento evolutivo e all’età” (Montecchi 1998).
Le principali forme di patologia delle cure sono: Incuria quando le cure fisiche e psichiche risultano essere insufficienti rispetto alle necessità del fanciullo, Discuria quando si è in presenza di cure distorte e inappropriate e Ipercura in presenza di un’eccessiva e sproporzionata somministrazione delle cure (Montecchi 2006).
Come sostengono la maggior parte degli autori moderni (Montecchi 2006, Berivi e Grassi 2018), queste patologie delle cure sono considerate forme di maltrattamento e danno vita a importanti disturbi psicopatologici come l’uso di sostanze e i disturbi di personalità nei casi più gravi, oppure problemi scolastici, difficoltà relazionali fino alla promiscuità, difficoltà di autonomizzazione, problemi con l’autorità nei casi più lievi.
Alla luce di tali premesse, in questo breve scritto, gli autori propongono attraverso l’interpretazione della fiaba dei fratelli Grimm “Hänsel e Gretel” una lettura in chiave clinica e archetipica degli aspetti cruciali dell’esperienza traumatica nel bambino, delle conseguenti ripercussioni sulla crescita e sullo sviluppo intrapsichico e del percorso che conduce allo svincolo delle dinamiche intrapsichiche familiari per l’autorealizzazione del Sé.
Gli autori condividono quindi la tesi della von Franz (1970) la quale sostiene che quasi tutte le fiabe tentino di descrivere metaforicamente il processo di individuazione, infatti la fiaba di Hänsel e Gretel è esemplificativa del percorso che un individuo può intraprendere per raggiungere la realizzazione del Sé.
Introduzione
Con la parola Archetipo si designano, nella filosofia tardo-antica, le forme universali delle cose sensibili, appunto il modello (typos) originario, o primo (arkè) delle forme create da Dio ed alle quali si uniformano le res del mondo sensibile (Serino, Battaglini 2018).
Per Jung l’archetipo è una “categoria a priori di esperienza e di conoscenza” (1936-1954), gli archetipi, o immagini primordiali, sono rappresentazioni “di uno stesso motivo che, pur nelle loro variazioni individuali anche sensibili, continuano a derivare dal medesimo modello fondamentale […] l’Eterno è “to arketupon fos”, per il Corpus Hermeticum” (Jung 1981).
Gli archetipi “appartengono” all’inconscio collettivo e sono manifestazioni di un contenitore universale, simboli onirici, visioni mistiche, elaborazioni mistiche, immagini legate alla dimensione religiosa. “L’inconscio collettivo è una parte della psiche che si può distinguere in negativo dall’inconscio personale, per il fatto che non deve, come questo, la sua esperienza all’esperienza personale e non è perciò una acquisizione personale” (Jung 1936). A differenza dell’inconscio personale “formato essenzialmente da contenuti che sono stati un tempo “consci” e che poi sono stati “dimenticati o rimossi”, i “contenuti dell’inconscio collettivo non sono mai stati nella coscienza e perciò non sono mai stati acquisiti individualmente, ma devono la loro esistenza esclusivamente all’ereditarietà” (Jung 1936). E d’altra parte l’inconscio personale consiste soprattutto in “complessi”, mentre, appunto, l’inconscio collettivo, è invece composto da “archetipi”, “forme determinate” della psiche, presenti sempre e comunque (ibidem).
Nell’ambito della ricerca condotta da Jung (1936), uno degli archetipi più importanti (insieme al Senex, il Puer Eternus, L’Ombra, la Persona, l’Anima, l’Animus, il Sé) è quello della Madre. Un archetipo che rimanda, appunto, alla idea della Madre, la cui formulazione è connessa inizialmente con la nozione junghiana di Anima, descritta dall’autore nelle opere: Tipi psicologici (1921) e L’Io e l’Inconscio (1916/1928). Per Jung l’archetipo della Madre, al pari dell’archetipo dell’Anima, investe una pluralità di aspetti, estesi all’ambito rituale, alla mitologia, alle religioni, alla filosofia, al mondo naturale e animale, alla civiltà umana e alle sue strutture fondamentali, quali ad esempio, luoghi dotati di significato universalmente valido e ricorrenti in ambienti e società diverse. Così egli indica al lettore la comune origine archetipica dei simboli mitici, come ad esempio Demetra e Core, dei “luoghi di nascita o procreazione”, degli oggetti dotati di alta valenza simbolica, come il forno o la pentola. Ogni aspetto risulta depositario d’una perenne ambivalenza pertinente alla madre, esperibile come “madre amorevole” e “madre terrificante” (Neumann 1956).
Come ogni archetipo anche quello della madre possiede una quantità pressoché infinita di aspetti: “la madre e la nonna personali, la matrigna e la suocera, qualsiasi donna con cui esiste un rapporto (la nutrice, la bambinaia…) in un senso più elevato e figurato la dea e infine la Vergine. In senso più lato: la Chiesa, l’università, la città, la patria, il cielo, la terra, il bosco, il mare e l’acqua stagnante, la materia, il mondo sotterraneo, la luna. In senso più stretto: i luoghi di nascita o di procreazione, il giardino, la grotta, l’albero, il pozzo profondo. In senso ancora più stretto: l’utero, ogni forma cava, il forno, la pentola, diversi animali come la mucca, la lepre e ogni animale soccorrevole in genere. Tutti questi simboli possono avere un significato positivo oppure nefasto” (Jung 1939-1954).
Le proprietà dell’archetipo della madre e del materno che hanno un significato positivo fanno riferimento a tutto ciò che è benevolo, protettivo, tollerante, a ciò che favorisce la crescita, la fecondità, la nutrizione, i luoghi della rinascita, l’istinto o l’impulso soccorrevole. L’aspetto malevolo e nefasto è invece rappresentato da ciò che è segreto, occulto, tenebroso, l’abisso, il mondo dei morti, ciò che divora, seduce, intossica, ciò che genera angoscia. A tal proposito anche Neumann (1956) ha designato come madre amorosa e madre terribile i poli estremi di questi attributi. Un simbolo nefasto è secondo Bettelheim (1975) proprio la strega, personificazione degli aspetti distruttivi dell’oralità con la sua tendenza a divorare i bambini.
Tutti questi aspetti archetipici si possono osservare all’interno delle fiabe, infatti esse sono l’espressione più pura dei processi psichici dell’inconscio collettivo e rappresentano gli archetipi in forma semplice e concisa. In questa forma così pura, le immagini archetipiche ci offrono i miglior indizi per comprendere i processi che si svolgono nella psiche collettiva (von Franz 1970). Secondo la concezione di Jung (1936), ogni archetipo è nella sua essenza un fattore psichico sconosciuto: è impossibile, perciò, tradurne il contenuto in termini intellettuali.
In questa sede, il nostro scopo è di offrire un’interpretazione della fiaba dei fratelli Grimm (1951)
“Hänsel e Gretel” ponendo l’accento sulle funzioni psichiche dell’archetipo della Grande Madre, sull’importanza dell’archetipo del padre e sulle implicazioni che quest’ultimo assume in termini transferali dal punto di vista della Psicologia Analitica a Orientamento Comunicativo.
La fiaba ci illustra come sia possibile individuare la strada da seguire per raggiungere la realizzazione del Sé. Tramite il superamento delle prove che i protagonisti sono chiamati ad affrontare (l’attraversamento del bosco, l’uccisione della strega, il guadare il fiume) si osserva la messa in campo di forze e di energie psichiche che concorrono allo sviluppo e alla crescita individuale. Il bosco è la metafora del processo di trasformazione in cui si viene coinvolti all’interno di un percorso psicoanalitico, in cui l’integrazione tra contenuti consci e inconsci è ciò che determina il mutamento della personalità del soggetto che ne è coinvolto (Bettlheim 1975).
È questo il significato che tenteremo di analizzare all’interno di questa trattazione andando a individuare gli aspetti ombra del materno e del paterno e le ripercussioni traumatiche sullo sviluppo del bambino. Ripercussioni che possono essere lette in termini clinici come espressione patologica della cura, precisamente come ”incuria,“ipercura” e “discuria”. Preciseremo più tardi il rapporto tra incuria, ipercura e discuria.
Gli aspetti Ombra del materno nella fiaba di Hänsel e Gretel
In questa sezione iniziamo a porre la nostra attenzione in particolare su tre personaggi della fiaba i quali, a nostro avviso, ci consentono di comprendere analiticamente gli aspetti Ombra del materno:
- La madre assente
- La matrigna
- La strega
- La sorella
Forniremo ora un brevissimo riassunto della fiaba di Hänsel e Gretel ambientata all’interno di una foresta della Germania nel XVII secolo, periodo di tremenda carestia probabilmente legata al dilagare di un’epidemia di peste. La fiaba racconta la storia di due fratellini che vengono abbandonati nel bosco dal padre, un povero taglialegna, e dalla matrigna perché non possono più sfamarli. Il riassunto della fiaba è questo: la prima volta i due fratellini riescono a ritornare a casa grazie all’astuzia di Hänsel che ha seminato dei sassolini lungo la via, ma la seconda volta il bambino, avendo utilizzato delle briciole di pane che sono state mangiate dagli uccellini, non è più in grado di riprendere la strada di casa insieme alla sorella. I due fratellini si perdono così nel bosco dal quale riescono a trovare una via di uscita soltanto il terzo giorno, attratti da una casetta fatta di pane e zucchero. I bambini cominciano a mangiare la casetta dal tetto e dalle finestre finché non compare la strega cattiva che li attira e li prende in trappola per cucinarli e mangiarli. Hänsel viene rinchiuso in una stia e fatto ingrassare dalla strega come un pollo, con l’intento della strega di mangiarlo. Grethel invece è costretta a cucinare per il fratello i cibi più squisiti. Arriva il giorno in cui la strega decide di mangiare Hänsel e ordina a Gretel di accendere il fuoco e di appendere il paiolo pieno di acqua. Con astuzia, Gretel spinge la strega all’interno del forno facendola morire carbonizzata. Tutta la casetta è piena di perle e pietre preziose: i due fanciulli si riempiono le tasche e si allontanano in cerca della via che li riconduca a casa. Giungono ad un fiume che non riescono ad attraversare e Gretel chiede l’aiuto ad un’anatra che li soccorre e li porta dall’altra parte del fiume. I due fratellini possono così ritrovare la loro casa dove li accoglie felice il padre, mentre la matrigna è morta. Avranno ora ricchezze a sufficienza e non avranno più bisogno di procurarsi il necessario per vivere (Grimm 1951).
La condizione di penuria e di abbandono rappresenta il tema centrale da cui si dipana tutta la vicenda e preannuncia il problema che la fiaba mette in risalto, vale a dire un assetto familiare patologico caratterizzato dall’assenza della madre, dalla presenza della matrigna e di un padre che non riesce a prendersi le responsabilità di padre. Egli rappresenta un paterno che non adempie alle sue funzioni ed è incapace di soddisfare i bisogni di sopravvivenza propri e della famiglia: mangiare, dormire e proteggere i figli. Vieppiù l’aspetto dell’impoverimento fà riferimento, oltre alla sussistenza economica e materiale, anche alla denutrizione psichica, intesa come incapacità della funzione paterna ad incidere profondamente sull’inconscio dei propri figli. In termini junghiani potremmo dire che questo padre ha un’Anima[1] negativa. L’Anima è il simbolo dell’Eros e riconoscendo l’Eros, l’uomo può imparare a stabilire relazioni fondate su un giudizio di valore, ossia sul sentimento. Solo se unite alla capacità di simbolizzazione del femminile la forza ed il potere fecondante del principio maschile, possono condurre all’azione intesa come volontà direzionata (Berivi, Carabini 2006).
Jung afferma a tal proposito che quanto più la donna è in grado di potenziare le sue funzioni Anima, tanto più ella potrà integrare, attraverso l’amore per un uomo portatore di Animus positivo, le funzioni maschili e unirle in una sintesi che la renderà ancora più femminile. Così come l’uomo in grado di utilizzare le funzioni Animus, potrà nell’incontro con il femminile integrare gli aspetti Anima e mascolinizzarsi. Nella fiaba la figura della matrigna a cui il padre si accompagna rappresenta proprio la rappresentazione della sua Anima negativa.
Jung (1931) considera il padre un elemento che crea, che dà stabilità e che guida e ciò permette un’evoluzione dinamica e favorisce l’inserimento del bambino nel mondo esterno. D’altro canto l’assenza del padre o la presenza di un padre inadeguato possono influenzare negativamente il processo di sviluppo del bambino. Diversi autori moderni affermano che l’assenza del padre può avere ripercussioni negative sull’adolescente in termini per esempio di autostima, rendimento scolastico, competenze sociali (Lamb 2004) o nel saper rinunciare alla soddisfazione immediata dei bisogni pulsionali (Guy Corneau 1991). La distruzione del paterno inoltre ha un effetto alone anche sull’intera società in cui le relazioni umane risultano dominate da tossicodipendenza, bullismo, competitività, sopraffazione, abuso (Grassi 2010).
L’impoverimento riguarda anche e soprattutto l’aspetto materno, qui simboleggiato dall’assenza della madre e dalla presenza al suo posto della matrigna, quale espressione del materno distruttivo, ingannevole ed espulsivo che mira ad uccidere i bambini per la propria sopravvivenza e che ha sostituito il materno nella sua funzione luce.
In questa fiaba la presenza della matrigna e della strega ci riporta alla distinzione dei due caratteri principali dell’archetipo della Grande Madre, quello “elementare” e quello “trasformatore” (Neumann 1956).
Come sostiene la von Franz (1988) Madre Natura è il grembo della vita; elargisce all’infinito senza riserve. Ma è anche la tomba. Implacabilmente uccide e divora tutto ciò che vive (von Franz 1988). La prima donna che l’uomo incontra è la madre. L’obiettivo che la madre si prefigge nella vita è quello di soddisfare la fame del figlio, avere cura del suo corpo, preoccuparsi del suo benessere. Ella ha un potere immenso. I suoi passi alleviano le pene del bambino; le sue braccia, cullandolo, lo fanno addormentare. Ne appaga tutti i bisogni fisici ed emotivi. Il rapporto tra madre e figlio è uno dei misteri più affascinanti della natura. Ma la natura è anche crudele” (von Franz 1988).
Nel suo carattere elementare positivo il mondo materno è vita e psiche in uno, nutre e procura piacere, protegge e riscalda, consola e perdona: questa madre è sempre quella che esaudisce, che dona e che aiuta. La simbologia del “Grande Cerchio” di cui Neumann (1956) parla a proposito del carattere elementare, evoca un’immagine di certo non ignota a Jung, quella alchemica dell’Uno/Tutto, l’universo indistinto e magmatico, privo di forma, all’interno del quale si esprime la forza latente ed irresistibile della natura. Quel Grande Cerchio è il serpente Ouroboros[2] simbolo del materno negativo (Neumann1956).
Il secondo carattere dell’archetipo della Grande madre individuato da Neumann (1956) è quello detto “trasformatore”: esso “pone l’accento sull’elemento dinamico della psiche, che, in contrasto con la tendenza conservatrice del carattere elementare, spinge a muoversi, a cambiare, dunque alla trasformazione”.
Nella fiaba i due caratteri “elementare” e “trasformatore” sono rappresentati da una parte dalla strega, figura divorante (carattere elementare) che trattiene i bambini nella casa, alimentandoli sino all’ingrasso e dall’altra parte dalla matrigna, figura che caccia dalla casa i bambini. Come vedremo di seguito, da quest’ultima figura si può osservare come la modalità espulsiva, nella sua polarità trasformatrice, può rappresentare per i bambini una via di fuga dal materno disfunzionale.
Al tempo stesso nel momento in cui i bambini crescono ed entrano in un processo di autonomia sono preda loro stessi di istanze predatrici ed avide che li rendono facili vittime di un materno divorante. Devono eliminare la strega per riprendere il cammino in modo più sano. Ciò può farci riflettere sul percorso di crescita che un adolescente deve affrontare in cui il compito evolutivo per l’adolescente è proprio quello di tenere sotto controllo gli impulsi avidi come ad esempio e mangiare, gestirli, e imbrigliarli in una dimensione in cui li può controllare senza incorrere in situazioni che lo mettono in pericolo.
Come afferma Neumann (1956) la Grande Madre pertanto è datrice non solo della vita, ma anche della morte e la sottrazione dell’amore può apparire come la sottrazione di tutte le funzioni che costituiscono l’aspetto positivo del carattere elementare. Così al nutrimento corrispondono la fame e la sete, al caldo il freddo, alla protezione la mancanza di protezione, all’appagamento il bisogno. Secondo Neumann (1956) il carattere trasformatore assume in termini positivi la funzione di sviluppo nel senso di generare e liberare mentre in termini negativi assume la funzione di ridurre e divorare.
Nella fiaba le funzioni del rifiuto e della privazione di cui si rende artefice in primis la matrigna appartengono entrambe all’aspetto oscuro dell’archetipo del femminile.
“Intesa in senso positivo la funzione del rifiuto è una funzione fondamentale del carattere elementare materno, che rende liberi i giovani adolescenti e – come accade per gli animali – in una determinata fase li spinge via. Nel rifiuto pertanto, si estrinseca anche una parte del carattere trasformatore dell’Archetipo del Femminile che fà pervenire le creature viventi al proprio sviluppo naturale. […]. Il rifiuto inizia, nell’esperienza dell’individuo, quando ha termine il contenimento, cioè tutte le volte che lo sviluppo necessario conduce al superamento del contenimento nell’Uroboro, nella Grande Madre. Questa costellazione è la base di ciò che si definisce in termini personali “trauma della nascita”, e che è stato interpretato come causa di ogni male. Si tratta in realtà di una condizione esistenziale, l’Io e l’individuo, che emergono da una fase di contenimento, in uno sviluppo graduale e impercettibile o in una “nascita” improvvisa, esperiscono questa situazione come rifiuto. […]. Tutte le volte che si risolve una vecchia situazione di contenimento, l’Io esperisce questa rivoluzione in cui si infrange una vecchia modalità di esistere, quale è il rifiuto da parte della madre. La funzione del rifiuto è strettamente connessa con la privazione, che nel cerchio elementare costituisce la funzione contrapposta al dare” (Neumann 1956).
Nella fiaba dei fratelli Grimm, il materno come abbiamo visto è rappresentato dall’assenza della madre, dalla matrigna e anche dalla strega cattiva che cattura con l’inganno i due bambini per ucciderli, mangiarli e nutrirsi. La strega rappresenta il lato oscuro della grande madre, aspetto negativo e distruttivo, il lato mortifero, tutto ciò che si oppone alla coscienza (von Franz 1977). Ella è la personificazione degli aspetti distruttivi dell’oralità, motivo per cui, in tutte le fiabe, il cibo utilizzato dalla strega simboleggia la mancanza di limiti tipici dell’avidità. “L’avidità, fame infinita e insaziabile, sembra essere la forma che, nell’inconscio collettivo, ha assunto il dolore associato all’esperienza del limite, indispensabile per l’accesso alla dimensione simbolica” (Grassi 2010). Tale avidità infatti è alla base di molti disturbi psicopatologici come i disturbi alimentari o come nei disturbi alimentari o nelle dipendenze patologiche.
La strega cattiva, come in principio entrambi i genitori, pone i due bambini nella condizione di deprivazione psichica e fisica ovvero Hänsel viene imprigionato e costretto a mangiare continuamente mentre Gretel è costretta a servire la strega occupandosi delle faccende domestiche. Tanto il femminile quanto il maschile vengono posti in una condizione d’inferiorità rispetto alle loro reali potenzialità di crescita e di sviluppo ovvero in una condizione di maltrattamento.
In ambito scientifico sono numerosi i contributi che tendono a definire le condizioni che caratterizzano il maltrattamento. Secondo il Consiglio d’Europa svolto a Strasburgo nel 1978 per abuso all’infanzia si intende “atti e le carenze che turbano gravemente i bambini e le bambine, attentano alla loro integrità corporea, al loro sviluppo fisico, affettivo, intellettivo e morale, le cui manifestazioni sono la trascuratezza e/o lesioni di ordine fisico e/o psichico e/o sessuale da parte di un familiare o di terzi”. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) si configura una condizione di abuso e di maltrattamento allorché i genitori, tutori o persone incaricate della vigilanza e custodia di un bambino approfittano della loro condizione di privilegio e si comportano in contrasto con quanto previsto dalla Convenzione di New York sui Diritti del Fanciullo (1989)[3].
Nel marzo 1999 a Ginevra, durante la Consultation on Child Abuse Prevention, è stato raggiunto un accordo univoco e mondiale sulla definizione di maltrattamento intendendolo come “comprensivo di tutte le forme di abuso fisico e/o psico-emozionale, di abuso sessuale, di trascuratezza o di trattamento negligente, di sfruttamento commerciale o l’assenza di azioni e cure, con conseguente danno reale, potenziale od evolutivo alla salute, alla sopravvivenza, allo sviluppo o alla dignità del minore nel contesto di un rapporto di responsabilità, di fiducia o di potere”.
In quella occasione sono state, inoltre, precisate quattro distinte forme di abuso: maltrattamento fisico; abuso sessuale; abuso psico-emozionale; neglect o trascuratezza grave. Il termine childabuse è onnicomprensivo di tutte le forme di abuso.
In letteratura spesso l’abuso fisico e la trascuratezza vengono trattati insieme e solo recentemente i ricercatori hanno iniziato a considerare la trascuratezza come un fenomeno concettualmente diverso dall’abuso e che necessita di un’attenzione specifica.
Cawson, et al. (2000) sostengono che la trascuratezza debba essere principalmente considerata in termini di assenza di cure genitoriali, mentre Stevenson (1998) la definisce come una vasta gamma di comportamenti che vanno dalla scarsa cura fisica alla mancanza di supervisione e controllo. Il National Child Abuse and Neglect Data System (1998) definisce la trascuratezza come una tipologia di maltrattamento che si riferisce al fallimento del genitore o del caregiver nel fornire le cure necessarie (condizioni igienico-sanitarie, abitazione, alimentazione, etc.) e la dimensione affettiva appropriata all’età del bambino, nonostante sia in grado di farlo.
Il termine generico “trascuratezza” si può riferire a un ventaglio eterogeneo di condizioni che vengono comunemente suddivise in tre diverse tipologie: trascuratezza psicologica, fisica ed educativa. Per “trascuratezza fisica” si intende il rifiuto o il ritardo nel fornire al bambino cure essenziali, lasciarlo solo e non accudirlo nei suoi bisogni primari (alimentazione, vestiario, cure igieniche). Dal punto di vista fisico i bambini trascurati possono presentare ritardo della crescita con bassa statura (nanismo psicosociale), problemi odontoiatrici e oculistici, denutrizione o ipernutrizione, dermatiti, frequenti infortuni domestici che possono provocare l’ingestione di sostanze tossiche. La “trascuratezza educativa” fa riferimento ad una situazione di dispersione scolastica cronica, per cui il bambino non viene iscritto alla scuola dell’obbligo o risulta assente da scuola almeno cinque volte al mese senza ragionevoli motivi. Tali bambini risultano maggiormente a rischio di avere uno scarso rendimento scolastico che li può portare a sperimentare fallimenti costanti.
Con il termine “trascuratezza psicologica” ci si riferisce a tutti gli atti o le omissioni attuate dal caregiver che possono portare il bambino a sviluppare disturbi del comportamento, cognitivi, emotivi o mentali come, ad esempio, insufficiente supporto emotivo, esposizione a violenza domestica e rifiuto o ritardo nel fornire cure psicologiche necessarie. Dal punto di vista psicologico questi bambini possono manifestare un ritardo psicomotorio e del linguaggio, iperattività, disturbi dell’attenzione, pseudo insufficienza mentale, inibizione, demotivazione, stanchezza cronica, difficoltà nel rapportarsi con gli altri, mancanza di fiducia in se stessi e negli altri (Montecchi 2002).
Sul piano diagnostico, il DSM-5 colloca l’abuso e la trascuratezza all’interno del nuovo capitolo “Disturbi correlati a eventi traumatici e stressanti”, in cui viene messa in luce, se non una patogenesi ed una psicodinamica degli stati traumatici, almeno una correlazione tra “eventi” traumatici e stressanti e disturbi successivi.
Esiste ormai in letteratura un’ampia documentazione che attesta come l’esperienza di eventi traumatici di diversa natura può contribuire in maniera sostanziale ad alterazioni del funzionamento psicologico e neurobiologico dell’individuo, sia in prossimità del trauma stesso che nel corso del tempo, addirittura a distanza di più di 30 anni. L’evento traumatico comporta rischi più gravi qualora l’esposizione avviene nel periodo dalla nascita all’adolescenza. (Morgan, Scouurfield, Williams, Jasper, Lewis, 2003).
L’Organizzazione Mondiale della Sanità nel suo Action Plan 2013-2020 (WHO, 2013) afferma che l’esposizione a eventi stressanti in giovane età è un fattore di rischio accertato per l’insorgere di disturbi mentali. Molte ricerche segnalano la correlazione tra i traumi sofferti durante la prima età della vita, le cosiddette, Esperienze Sfavorevoli Infantili (Adverse Chilhood Experiences-ACE, 2006) e vari esiti patologici, a livello somatico, psichico e sociale. Secondo Filetti & Anda (2006), gli eventi di vita negativi, i traumi, i lutti, sarebbero infatti da considerare fattori aspecifici in grado di aumentare la probabilità di comparsa di qualsiasi malattia fisica e mentale, di influenzarne il decorso, di peggiorarne la prognosi e di provocare ricadute nel caso di patologie tendenzialmente croniche. Le prime Esperienze Sfavorevoli Infantili influenzano il cervello in via di sviluppo determinando effetti duraturi anche e soprattutto a livello neuronale e neurobiologico, oltre che affettivo (Faretta 2014).
Recentemente, sotto la spinta di nuovi studi rivolti alle relazioni cervello-comportamento, si sta indagando sempre più l’impatto del trauma sui correlati neurobiologici. È stato provato che l’esperienza ambientale gioca un ruolo fondamentale sulla differenziazione del tessuto cerebrale (Cicchetti 2002) e che le esperienze traumatiche alterano l’attività dell’asse ipotalamo/ipofisi/corticosurrene (HPA) e del sistema neuroendocrino evoluto nei mammiferi per il coping in condizioni di pericolo e minaccia. Una disregolazione dell’asse HPA è riscontrabile spesso negli studi sui correlati neurobiologici del maltrattamento che rilevano una carenza di cortisolo e quindi una minore reattività del cortisolo, accanto ad una minore competenza sociale e ad un maggiore comportamento esternalizzante nei bambini maltrattati ( Hart, Gunnar, Cicchetti, 1995). Gli autori di questo studio svolto con bambini prescolari, oggetto di maltrattamento, hanno ipotizzato come la ridotta attività dell’asse HPA poteva avere un valore adattivo, proteggendoli dalle conseguenze di un ipercortisolismo cronico sebbene al costo di una ridotta competenza sociale e un aumento di comportamenti ansiosi e preoccupati (internalizzanti).
Studi recenti (Bremner 1999) hanno riscontrato in persone con diagnosi di Disturbo Post Traumatico da Stress (PTSD) sia adulti, veterani di guerra, sia bambini abusati, una riduzione delle dimensioni dell’amigdala o dell’ippocampo e la riduzione risulta più evidente se il trauma è precoce, ovvero si è verificato in un momento critico dello sviluppo e laddove il trauma sia ripetuto (effetto cumulativo) (Nicolais, Speranza, Bacigalupi & Gentile, 2005). Più in generale sembra che i traumi legati a maltrattamenti durante l’infanzia influiscono sullo sviluppo dell’emisfero destro, dominante per le risposte di attaccamento, per le elaborazioni degli stimoli non verbali, nella regolazione degli affetti e nella modulazione delle risposte allo stress. Numerosi studi neuroscientifici provano l’ipotesi dell’importanza dell’emisfero destro nella processazione dell’intelligenza emotiva e di una generale superiorità dell’emisfero destro sia nella comprensione delle emozioni positive che negative (Grassi 2012).
Ci sembra utile a questo punto dare una definizione più specifica di trauma per definirne la cornice di riferimento. In psicopatologia per trauma si intende un’esperienza minacciosa estrema, insostenibile, inevitabile, di fronte alla quale un individuo è impotente.” (Hermann, 1992b; Krystal, 1988; Ven der Kolk, 1996).
Secondo Janet (1893-4), il trauma psicologico è un evento che, per le sue caratteristiche, risulta “non integrabile” nel sistema psichico pregresso della persona, minacciando di frammentare la coesione mentale. Talvolta l’esperienza traumatica rimane dissociata dal resto dell’esperienza psichica, causando una sintomatologia psicopatologica chiamata “dissociazione”.
Balint (1969) definisce la situazione traumatica all’interno della relazione e precisa che perché ci sia un trauma è indispensabile la presenza di almeno due persone, una nel mondo interno e una nel mondo esterno.
Le conseguenze sullo sviluppo del bambino possono essere molto gravi, perché sono proprio le prime esperienze a stabilire la traiettoria dello sviluppo futuro (Beebe 2006, Hawkins 2004, Schore 2011).
Di fondamentale importanza è il contributo dell’epigenetica che ci consente di studiare ed analizzare i meccanismi molecolari attraverso i quali le situazioni ambientali possono influenzare l’espressione genica senza modificare le sequenze inscritte nel DNA. L’aspetto rivoluzionario che alcuni studi stanno dimostrando riguarda la possibilità di una ‘trasmissione transgenerazionale’ del trauma a livello epigenetico. Gli effetti di un trauma potrebbero essere legati ad alterazioni dell’espressione dei geni, che si perpetuano anche in assenza dell’evento che le ha generate. Al contrario della sequenza di DNA, che è per lo più statica per tutta la durata della vita, i marcatori epigenetici possono subire cambiamenti importanti nel corso dello sviluppo pur non alterando il codice genetico del DNA.
È stato dimostrato dunque che il trauma psicologico induce cambiamenti epigenetici che possono avere effetti a breve e lungo termine sulla funzione neuronale, sulla plasticità cerebrale e sugli adattamenti comportamentali agli stress psicologici (Zannas et al., 2015).
In uno studio condotto da Romens et al. (2015) su un campione di preadolescenti (dagli 11 ai 14 anni) che subivano maltrattamenti fisici da parte dei genitori, si osservava che un elevato livello di stress causava modifiche epigenetiche in grado di influenzare un gene coinvolto nella regolazione dello stress (Romens et al. 2015). L’alterazione del sistema ormonale determinava una serie di cambiamenti a cascata a livello biologico e comportamentale, responsabili dello sviluppo futuro di disturbi fisici e psicologici (ibidem).
Spesso è la combinazione tra rischio genetico e ambientale a spingere il bambino verso un percorso di sviluppo disadattivo. L’epigenetica è un processo che continua per tutto l’arco dell’esistenza e ciascuna modifica del corredo epigenetico influenza la nostra modalità di reazione difronte ai futuri eventi ambientali (ibidem). A conferma di quanto detto, attraverso gli studi condotti sugli animali è stato dimostrato come i maltrattamenti materni possono causare modifiche epigenetiche responsabili dell’alterazione della reattività allo stress e di come questa alterazione venga trasmessa in seguito alla generazione successiva (Champagne et al. 2006).
Un altro studio ha dimostrato che la separazione materna cronica e imprevedibile induce comportamenti depressivi, non solo nella prima generazione di topi, ma anche nella loro prole. Questi sorprendenti risultati ci permettono di ipotizzare che anche negli umani il ciclo di abusi e dei suoi effetti negativi, si può ripetere da una generazione all’altra (Franklin et al., 2010).
Un fattore da considerare è anche il momento dell’esposizione traumatica e la sua relazione temporale con i cambiamenti epigenetici e lo sviluppo del disturbo Post Traumatico da Stress (PTSD). Il trauma nelle prime fasi della vita è associato a cambiamenti epigenetici duraturi.
Sebbene sia la trasmissione intergenerazionale sia quella transgenerazionale degli effetti delle avversità ambientali siano state stabilite in modelli animali, studi sull’uomo non hanno ancora dimostrato che gli effetti del trauma sono ereditabili.
In riferimento agli studi condotti sugli uomini, un contributo importante è quello che ci viene offerto da Porges (2001), il quale nel suo sistema polivagale individua tre stadi filogenetici in cui descrive le reazioni che vengono messe in atto durante molte situazioni traumatizzanti (complesso ventro-vagale, sistema simpatico-adrenergico e complesso dorso-vagale). Dei tre sistemi, quello ventro-vagale deputato al coinvolgimento sociale (Porges 2001) è presente sin dalla nascita e assume un’importanza rilevante nella regolazione dell’interazione madre-neonato fungendo da mediatore nelle modalità di attaccamento. Poiché il sistema ventro-vagale necessita di maturazione, quindi di un ambiente favorevole, è ipotizzabile che la qualità delle cure precoci del caregiver influenzi la qualità del funzionamento futuro dell’individuo anche a livello di regolazione del sistema nervoso autonomo. In effetti, in bambini molto precocemente maltrattati o trascurati sono rilevabili, anche a distanza di anni, alterazioni talora gravi a livello di funzioni viscerali coordinate dal cervello protorettiliano (disregolazione dell’arousal, della frequenza cardiaca e respiratoria, alterate percezioni ed elaborazioni degli stimoli, in particolare fame, sonno, sete, dolore, propriocezione (Perry 2005). Tale sistema, si attiva secondo Porges (2001) attraverso l’interazione sociale in una situazione di ambiente sicuro[4] che attiva a sua volta il sistema di attaccamento, di socializzazione, del gioco e dell’esplorazione (van der Hart et al. 2006) permettendo una maturazione e una crescita del sistema nervoso, attraverso la neuroplasticità cerebrale, presente anche in età adulta (Doidge 2007). La situazione di ambiente insicuro attiva invece il sistema simpatico facilitando le reazioni di evitamento attivo, in quel momento adattive in quanto consentono di attaccare o fuggire. Infine la situazione di pericolo di vita induce reazioni di evitamento passivo (sottomissione, freezing passivo, numbing, dissociazione, immobilità tonica e feigned death).
È importante sottolineare che l’esposizione al trauma non porta sempre allo sviluppo del disturbo Post Traumatico da Stress (PTSD), e che quindi i cambiamenti epigenetici a seguito dell’esposizione al trauma non provocano necessariamente un disturbo psicologico, ma anzi, in alcuni casi possono determinare l’apprendimento di nuovi comportamenti per evitare l’esposizione al trauma o altri meccanismi adattativi. Il principio della plasticità epigenetica implica che le modifiche all’epigenoma potrebbero resettarsi quando le avversità ambientali non sono più presenti o quando sviluppiamo un modo alternativo per affrontare le sfide ambientali. In questo caso si può parlare di un costrutto che in psicologia è chiamato resilienza. La definizione di resilienza maggiormente condivisa in psicologia è quella dell’American Psychological Association (2020), che la descrive come: “un processo di riadattamento di fronte ad avversità, traumi, tragedie, minacce, o anche significative fonti di stress – come problemi familiari e relazionali, seri problemi di salute, o pesanti situazioni finanziarie e lavorative”.
Alla base della resilienza umana vi è proprio la capacità di rispondere in modo flessibile agli stimoli ambientali e che proprio come i vissuti traumatici possono essere trasmessi transgenerazionalmente, così può esserlo anche la capacità di fronteggiare e superare il trauma, con lo sviluppo di meccanismi di resilienza da parte delle generazioni successive.
Nella fiaba i due protagonisti attraverso il superamento delle prove che sono chiamati ad affrontare (l’attraversamento del bosco, l’uccisione della strega, guadare il fiume) ci svelano la messa in campo di forze e di energie psichiche che concorrono allo sviluppo e alla crescita personale, richiamando proprio quanto teorizzato da Porges (2001).
La resilienza di Hansel e Gretel
I due fratellini abbandonati nel bosco sono la rappresentazione dell’immagine di uno stato interiore che mostra da una parte il desiderio e la spinta regressiva di ritornare nella casa paterna e di ricercare il supporto dei genitori e dall’altra parte mostra il desiderio di perdersi nel bosco per poi scoprire la casetta dei desideri. Viceversa l’attraversamento del bosco inteso in termini evolutivi conduce alla scoperta del nuovo. Nel bosco e nella foresta, l’eroe, in un ritiro spirituale, compie una profonda introversione. Egli si tuffa nell’inconscio, per attingervi le forze necessarie alla propria rinascita (J. De la Rocheterie 2004). Da un punto di vista simbolico, in quanto luogo primitivo e selvaggio, il bosco ha una valenza iniziatica che richiede a colui che lo attraversa di affrontare una serie di prove, il cui superamento rappresenta un passaggio da una condizione ad un’altra. In tal senso il bosco è anche un luogo di metamorfosi e rappresenta il viaggio dell’eroe, il viaggio che l’Io deve compiere per raggiungere l’autorealizzazione e l’Individuazione (Jung 1935). Ogni fase cruciale della vita è segnata da profondi cambiamenti di trasformazione interiore e di morte psicologica, di aspetti che devono necessariamente morire per poter accogliere il nuovo. L’Individuazione in termini junghiani è “un processo di differenziazione che ha per meta lo sviluppo della personalità individuale” (Jung 1921). “L’individuazione rappresenta quindi un ampliamento della sfera della coscienza e della vita psicologica cosciente“(Ibid.).
Il tesoro che l’eroe alla fine scopre nel proprio viaggio è proprio il suo vero Sé. Jung (1921) pertanto non intende l’Individuazione come un rafforzamento dell’Io, ma piuttosto come l’incontro con il Sé, “nucleo interiore di natura divina e anche un assoggettarsi ad esso. Tale viaggio inteso proprio come ricerca, è pieno di pericoli e insidie, costituisce un’esperienza sconvolgente” (von Franz 1977).
L’archetipo dell’eroe dà inizio al processo di individuazione che esordisce con la presenza di una dissonanza che ci porta ad abbandonare la realtà attuale, a cambiare il nostro modo di vedere le cose e ad abbandonare i punti fermi ormai strutturati, per lasciare spazio all’evoluzione di potenzialità ancora inespresse. Il viaggio non inizia mai in modo casuale, ma nasce in momenti di crisi e precarietà che, a livello personale, spesso coincidono con la percezione del sentirsi intrappolati in una realtà che non ci soddisfa e con il desiderio di raggiungere nuovi obiettivi personali. Questo processo è caratterizzato dall’alternarsi di premi e ostacoli che la persona non può prevedere e che spinge l’individuo a riattivare risorse personali diverse. Al contempo si associa alla morte simbolica, al bisogno di abbandonare i precedenti schemi mentali e di lasciare indietro parti di sé per poter rinascere superando nuove fasi evolutive.
La prima fase del viaggio è associata all’archetipo dell’innocente (Jung 1936), è legata cioè al contesto familiare di origine, a uno spazio ovattato e protettivo che però ad un certo punto della nostra vita inizia a comparire come troppo vincolante, come qualcosa da cui sganciarsi.
Il secondo stadio è associato all’archetipo dell’orfano (Jung 1936), una fase caratterizzata dall’abbandono del contesto di origine e da tutte le trasformazioni in esso implicate. Lasciarsi alle spalle la condizione originaria permette alla persona di entrare in contatto con realtà, personaggi e usi differenti rispetto a quelli prima dati per scontati. Il nuovo destabilizza i vecchi punti di riferimento e le convinzioni ormai strutturate, facendo vacillare il nostro senso dell’orientamento. La perdita di appigli legati ad una realtà naturale data per certa può tradursi in uno stato di paura ed incertezza, ma anche di nostalgia associata a un forte desiderio di tornare al punto di origine associato a una tendenza all’idealizzazione di quest’ultimo (Ibidem).
La fase successiva del viaggio è segnata dall’abbandono del senso di impotenza e della nostalgia e dall’incontro con l’archetipo del guerriero (Jung 1936). Vivere nuove esperienze ed entrare in mondi prima sconosciuti agisce come una leva che ci sprona a tirare fuori le risorse richieste dal contesto che stiamo vivendo. Questo archetipo si associa alla forza, alla carica vitale e alla perseveranza che abbiamo per superare gli ostacoli e i fallimenti. Ciò lascia spazio a una nuova visione della realtà. L’ultimo stadio del viaggio dell’eroe è l’incontro con l’archetipo del mago (Jung 1936). Questo archetipo si esprime attraverso il contatto cosciente e la trasformazione della propria coscienza, con lo scopo di cambiare sé stesso e il mondo esteriore. Questa fase evolutiva è pertanto legata alla piena consapevolezza della propria storia personale. Nell’immaginario comune, attorno all’immagine del bosco si concentrano una serie di suggestioni che spaziano da un’idea positiva, quella di contesto ambientale rigoglioso, brulicante di vita e incontaminato, ad una concezione negativa, di luogo oscuro e misterioso, inquietante e ostile. Entrare in un bosco è come imbattersi nella caverna che ognuno porta dentro di Sè, in altre parole fare i conti anche con quella che Jung definisce l’Ombra[5], (Jung 1916/1928). La presa di coscienza può nascere solo all’interno di un’inesauribile dialettica con la sua matrice inconscia. Infatti, solo un confronto faticoso con i contenuti dell’inconscio e una conseguente sintesi di aspetti consci e inconsci può portare a una totalità (Ibidem).
Questo è, dunque, il significato del viaggio di iniziazione che i due bambini dovranno compiere all’interno del bosco, ovvero quello di entrare in contatto con la propria Ombra, ciascuno con la propria individualità e insieme come coppia che forma la totalità ermafrodita del Sé (von Franz 1977). Il riconoscimento della propria Ombra è la prima tappa del processo di individuazione e il contatto con essa e la sua ricognizione è una fase cronologica dello sviluppo. L’integrazione dell’Ombra con la coscienza è un’opera che può durare tutta la vita e ne rappresenta il tratto esistenziale (Trevi 1975).
Nella fiaba, si nota come all’inizio del viaggio verso l’Ombra ci siano diversi elementi che denotano un forte attaccamento da parte dei bambini verso tutto ciò che rappresenta il loro mondo noto e familiare: la tendenza di Hänsel a voltarsi indietro più volte a guardare la casa, il guardare il suo gattino sul tetto e il gettare i sassolini al fine di ritrovare la strada di ritorno. Ciò denota il bisogno che l’essere umano ha di volgersi verso ciò che conosce, che gli dia un senso di appartenenza, di protezione e di familiarità e quanto invece l’andare verso l’ignoto è qualcosa che spaventa. Il voler tornare indietro esprime il desiderio di evitare di combattere la battaglia per l’individuazione, ma una volta adulti, in questo il messaggio della fiaba è incisivo ovvero se non si cominciano a usare le proprie risorse interiori, le forze dell’istinto e il bisogno di dipendere possono mostrarsi distruttive tanto da condurre la persona alla regressione e alla morte.
Difatti Hänsel la seconda volta non riesce a trovare la strada di ritorno a casa, ma assieme alla sorella si addentra nel bosco. Questo rappresenta l’impresa di trovare sé stesso, di diventare una persona indipendente mediante la conoscenza del mondo. Egli non ha iniziativa e così facendo può solo tornare alla passività e garantirsi una dipendenza eternamente gratificante e al tempo stesso mortifera.
La fiaba di Hänsel e Gretel ci mostra come questo atteggiamento a lungo andare non funziona e ci ammaestra sulle debilitanti conseguenze del tentativo di affrontare i problemi della vita mediante la regressione e il rifiuto, che riducono la capacità dell’individuo di risolvere i problemi (Bettelheim 1975).
La regressione alla dipendenza orale primaria dalla madre sopprime ogni individualizzazione e indipendenza. Essa giunge a mettere in pericolo l’esistenza stessa dell’individuo, dato che le inclinazioni cannibalistiche si incarnano nella figura della strega. La strega, che è una personificazione degli aspetti distruttivi dell’oralità, ha la stessa tendenza a divorare i bambini che vanno a demolire la sua casa di marzapane. Quando i bambini cedono agli impulsi incontrollati dell’Es, simboleggiati dalla loro sfrenata voracità, rischiano di esserne distrutti (Bettelheim 1975).
Infatti, nella fiaba i due bambini tentano di ritornare alla casa utilizzando dei stratagemmi per far ritorno a casa.
I due personaggi non sono capaci di trovare una soluzione ai loro problemi e quando si ritrovano dinnanzi alla Casa di Marzapane danno pieno sfogo alla loro regressione orale, ma ciò li conduce a cadere nella trappola della strega. Le tentazioni a cui i bambini cedono rappresentano in realtà il bisogno di accudimento e nutrimento inadeguato sino ad allora sia per l’assenza della figura materna che per la presenza di un paterno inadeguato dal punto di vista contenitivo e regolatorio. In questa scena la fiaba ci mostra da un lato come l’incuria precoce determina nel bambino un intrappolamento nella fase orale in cui è dominato da dimensioni di avidità e voracità, e dall’altro lato mette in evidenza le difficili strategie resilienti da mettere in atto per progredire verso uno sviluppo sano.
Quanto detto ci permette di riflettere sul senso profondo della sana nutrizione e dell’accudimento. L’accudimento e il nutrimento non possono rappresentare solo l’appagamento di un bisogno primario ma, devono essere necessariamente accompagnati dalla componente emotiva e affettiva, dall’attribuzione di senso e di significato, dalla fruizione di regole, limiti e senso di misura.
È necessario a questo punto provare a delineare il confine fra cura e ipercura, confrontandoci, anche se brevemente, con il dibattito intorno all’etica della cura, intesa come care. Da un lato “la cura dell’altro può essere esercitata in funzione di un narcisismo autoreferenziale, io esisto perché sono il centro del tuo mondo, oppure, poiché mi prendo cura di te, mi aspetto che tu non mi lascerai mai. In questo caso l’ipercura non è altro che la passivizzazione dell’altro, è minare la sua autonomia e offrire insieme la ricompensa che trattiene il figlio, come la casetta di marzapane tratteneva i famosi Hansel e Gretel (Grimm, 1951), il cui destino, non a caso, è di essere poi divorati dalla strega. In altri termini devi rimanere figlio bisognoso di cura per tutta la vita” (Berivi S, Grassi A, 2018).
“L’etica della cura, per potersi veramente denominare etica, necessita di integrare oltre alla giustizia, universale, l’etica in quanto esistenza di leggi e di regole che la persona umana si porta dentro e che esige il riconoscimento del senso che ogni relazione ha, dei ruoli che vengono esercitati, dei confini generazionali che vanno rispettati. Comporta l’accettazione del senso del limite che le “regole di base della vita”, così come descritte da Robert Langs (1998), contribuiscono a dare, nel confronto continuo e capillare sui comportamenti quotidiani e sul significato profondo che questi hanno. L’etica della cura implica a nostro avviso il riconoscimento dell’altro, in quanto tanto amato proprio perché lasciato libero di andare verso la vita e verso un uomo o una donna che diventa il centro della propria esistenza, in senso esogamico” (Ibidem). In tale prospettiva gli autori Berivi e Grassi (2018) propongono la formulazione integrata di “Etica del senso della cura”.
Secondo l’etica del senso della cura, l’ipercura dunque non è solo un “eccesso di cura”, che di per sé può generare comunque dipendenza, scarsa autonomia e insicurezza, ma si può parlare di ipercura “altro aspetto della mera relazionalità, ogni volta che la madre o il padre o la famiglia passano da una dimensione verticale dell’esistenza, necessaria per la crescita e lo sviluppo del senso morale, ad una orizzontale dove è vero tutto e il contrario di tutto, dove il sistema morale viene fortemente compromesso in quanto relativizzato, dove i vantaggi materiali secondari rendono impossibile lo svincolo” (Berivi, 2011).
In campo psicologico evolutivo esistono ormai numerosi studi su fenomeni molto affini. “L’ipercoinvolgimento/protettivo (excessive care/overprotection) è uno stile di parenting intrusivo e ansioso che non permette al bambino di affrontare le sfide naturali della vita e impedisce lo sviluppo delle abilità di gestione delle difficoltà” (Patrizi et Altri, 2010). In questa categoria rientrano l’intrusività, l’incoraggiamento alla dipendenza e l’esclusione del figlio dal confronto con l’esterno (Parker, 1983). Alcuni autori, attraverso la meta analisi su campioni clinici, hanno suggerito come i disturbi internalizzanti, la depressione e l’ansia, che spesso sottostanno l’uso di sostanze, sono correlati ad una iperattivazione dell’attaccamento legata alla passività e allo scarso sviluppo di sé (Van Jzendoorn, Bakermans-Kranemburg, 2008). Se un genitore infatti esercita un eccessivo controllo psicologico sul figlio di fatto ne nega l’indipendenza psicologica (Barber, 1996, Barber e Harmon, 2002; Kering, 2003). L’iperprotettività, intesa ancora come inibizione del comportamento e incoraggiamento alla dipendenza, rientra in questa categoria, anche perché vengono meno le caratteristiche supportive proprie di uno stile genitoriale che favorisce l’autonomia e la crescita psicologica (Grolnick et al, 2002; Gronlick e Ryan, 1989; Pomerantz e Rubble, 1998 Grolnick, 2003).
Conclusioni
Attraverso l’interpretazione della fiaba è stato possibile analizzare gli effetti dell’ipercura, della discuria e dell’incuria come facce di un’unica medaglia, vale a dire come espressione di un malfunzionamento dell’etica del senso della cura ( Berivi, Grassi 2018) e vedere quanto questo nuoce allo sviluppo psico-fisico del bambino, il quale deve invece poter trovare la strada per superare la dipendenza dai genitori e crescere rendendosi indipendente.
“Il bambino intrappolato in un ambiente prevaricante, si trova a dover affrontare un compito di adattamento di grave complessità. Dovrà trovare una strada per conservare un senso di fiducia in gente inaffidabile, sicurezza in un ambiente insidioso, controllo in una situazione di assoluta imprevedibilità, senso di potere in una condizione di mancanza di potere” (Herman 1992).
L’obiettivo inconscio del bambino è “fuggire” dall’incuria, dall’ipercura e dalla discuria per accedere ad una dimensione spirituale, ben rappresentata nella fiaba dall’anatra “simbolo di trascendenza (Jung 1984).
L’iperprotezione e l’ipercura, rappresentano a tutti gli effetti un reato di maltrattamento, ma è proprio la mancanza di limiti che in realtà non favorisce l’autonomia e la crescita psicologica, più di ogni altro aspetto emotivo.
L’ipercura è qualcosa di eccedente l’iperprotettività: è costringere il bambino a rimanere fisicamente un eterno bambino, creando un vero e proprio abuso sia fisico che psichico. Essa rappresenta la follia di un regime matriarcale, attualmente estremamente diffuso e nascosto, che di fatto soppianta quello materno e ne diventa il lato oscuro (von Franz 1972).
Come già messo in luce, a nostro modo di vedere questa fiaba ci mostra in modo chiaro ed esemplificativo le possibili conseguenze dell’incuria precoce, in quanto essa intrappolando il bambino in una dimensione di oralità (casa di marzapane) in cui si divora e si è divorati, di fatto interrompe lo sviluppo del bambino relegandolo alla fase governata dall’oralità. I protagonisti della fiaba riescono in modo resiliente ad uscire da questa dimensione di predatorietà che come abbiamo visto rappresenta un materno malefico e distruttivo mettendo in campo la loro astuzia e complicità. Hänsel propone alla strega un ossicino fingendo di essere ancora troppo magro per essere mangiato e Gretel invece riesce ad ingannare la strega fingendo di non aver capito e spingendola dentro il forno.
Per sopravvivere i bambini devono maturare l’iniziativa come qualità psichica e rendersi conto che la loro unica risorsa consiste nella progettazione intelligente e nell’azione: la sostituzione del dito con l’osso, lo stratagemma che induce la strega ad arrampicarsi nel forno. Alla fine Hänsel e Gretel trovano le loro risorse interne e imparano come metterle a frutto.
Apparentemente questo passaggio, in cui i due fratellini superano la fase orale per raggiungere la fase successiva che dà avvio alla fase edipica, potrebbe essere letto in termini evolutivi, ma di fatto è un passaggio manchevole perché la nuova costellazione familiare in cui è assente la figura materna, rappresenta in termini psicologici l’assenza di una valida prospettiva di sentimento (von Franz 2002).
“Questa assenza rappresenta di fatto la mancanza di una barriera contro l’incesto” (Russello et. al 2023).
“Una volta superate le proprie difficoltà edipiche, dominate le proprie ansie orali, sublimati i propri desideri che non possono essere soddisfatti realisticamente […] il bambino è pronto a tornare a vivere felicemente con i suoi genitori” (Bettelheim 1975), ma in riferimento a quest’ultimo aspetto che evidenzia come il ricongiungimento con i genitori possa rappresentare il lieto fine della fiaba, a nostro avviso, contrariamente a quanto sostenuto da Bettelheim, riteniamo che il percorso evolutivo che i due fratellini compiono dall’essere bambini al diventare adolescenti e pian piano adulti, possa rappresentare una vera crescita solo nella misura in cui ci sia un reale distacco dalla famiglia. Se il bambino rinuncia all’infantile desiderio di unione con il padre e con la madre, per prendere atto della sua mortalità, in questo modo comincia a crescere e a cooperare con gli altri mortali e bisognosi gli uni degli altri. La sfida per i bambini è assumersi la responsabilità della propria sofferenza, essere ciò che si è, per quanto possa fare male fare i conti con le ferite ricevute, comprendere che in definitiva è proprio la mancata risposta del mondo esterno ai nostri bisogni che motiva il viaggio verso la conquista di ciò che siamo e che vogliamo raggiungere (Jung 1936).
Solo quando si riconoscono i pericoli insiti nel rimanere fissati all’oralità primitiva, con le sue propensioni distruttive, si apre la strada a uno stadio superiore di sviluppo. Non appena i bambini trascendono la loro ansia orale e si liberano dell’abitudine di affidare la loro sicurezza alla soddisfazione orale, possono anche liberarsi dell’immagine della madre minacciosa: la strega.
“Il bambino simboleggia questa capacità del tutto spontanea, insita in ognuno di noi, di risolvere una situazione. La parte genuina e spontanea può agire in modo costruttivo” (von Franz 1977).
Al pericolo che deriva dall’essere abbandonati, il bambino, come ci mostra la fiaba, non deve reagire lasciandosi andare al desiderio di regressione, ma deve cercare una propria via, una strada che lo conduca al raggiungimento di un grado sempre maggiore di autosufficienza. Questa strada può essere trovata attraverso l’industriosità, cioè la capacità di ricavare qualcosa di buono anche da materiale non promettente o dalla capacità di attuare i propri intenti anche se all’inizio ci si sente assolutamente inadeguati.
Non è possibile vivere troppo a lungo nell’ambiente della propria fanciullezza o in seno alla famiglia senza che ciò non costituisca un certo pericolo per la salute dello spirito. La vita chiama l’uomo fuori, verso l’indipendenza e colui che per indolenza o timidezza infantile non obbedisce a questo appello è minacciato di nevrosi. Una volta scoppiata, la nevrosi diverrà progressivamente una ragione sempre più valida per sfuggire alla lotta con la vita e per rimanere impigliati per sempre nell’atmosfera moralmente velenosa dell’infanzia.
Bisogna arrivare all’uccisione della matrigna, per potersi liberare di tutti gli atteggiamenti negativi legati alla sua figura e soprattutto dal rapporto di dipendenza, affinché possa nascere e svilupparsi il vero Sé.
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Sitografia
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L’Anima è l’archetipo della vita ed equivale ad una vera e propria personalità interiore. Psicologicamente rappresenta la femminilità inconscia contenuta nella psiche dell’uomo. Vedi Jung 1950 ↑
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Raffigurazione di un serpente o di un coccodrillo che si morde la coda, assunta dalla psicologia analitica come simbolo archetipico della condizione indistinta che precede lo sviluppo della personalità. ↑
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La Convenzione, obbliga gli Stati che l’hanno ratificata a uniformare le norme di diritto interno a quelle della Convenzione e ad attuare tutti i provvedimenti necessari ad assistere i genitori e le istituzioni nell’adempimento dei loro obblighi nei confronti dei minori.
Secondo la definizione della Convenzione sono “bambini” (il termine inglese “children”, in realtà, andrebbe tradotto in “bambini e adolescenti”) gli individui di età inferiore ai 18 anni (art. 1), il cui interesse deve essere tenuto in primaria considerazione in ogni circostanza (art. 3). ↑ -
Sentirsi sicuro per Porges dipende da tre condizioni: 1) il sistema nervoso autonomo non può essere in uno stato che supporta la difesa, 2) il sistema di coinvolgimento sociale necessita di essere attivato per diminuire l’attivazione simpatica e contenere, a livello funzionale, il sistema nervoso simpatico e il circuito dorso-vagale all’interno di un intervallo ottimale (omeostasi) che supporterebbe la salute, la crescita e il recupero delle energie; 3) al fine di rilevare gli indizi di sicurezza attraverso la neurocezione. ↑
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Parte inconscia della personalità caratterizzata da tratti e comportamenti che l’Io cosciente tenta di rimuovere o ignorare ↑