Spiritualità e benessere psicosomatico – Una riflessione dalla prospettiva della Teoria Polivagale <br> Cuzzocrea G.1, Fontana A.1, Sidel i L.1 Caretti V. 1

Spiritualità e benessere psicosomatico – Una riflessione dalla prospettiva della Teoria Polivagale
Cuzzocrea G.1, Fontana A.1, Sidel i L.1 Caretti V. 1

1Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA di Roma

Abstract: Le pratiche religiose e spirituali sono tra le più antiche forme di intervento finalizzate ad alleviare la sofferenza e promuovere il benessere. Lo storico e sempre attuale dibattito tra scienza e fede viene intrapreso a favore di una visione integrata che contempli gli apporti benefici e i contributi di entrambe le prospettive, dando enfasi alla relazione tra le dimensioni consce ed inconsce. Numerose evidenze scientifiche riconoscono gli effetti positivi delle pratiche spirituali sulla salute psicosomatica. In particolare, la Teoria Polivagale si sofferma in termini empirici sull’interconnessione tra stati emotivi, comportamentali e funzioni neurali aiutando a comprendere il contributo alla regolazione emotiva ed autonomica offerta dai riti religiosi e dalle pratiche spirituali. Una visione integrata della relazione mente-corpo e l’importanza della dimensione spirituale risultano, alla luce della Teoria Polivagale, fondamentali per promuovere il benessere psicosomatico nella vita quotidiana e in psicoterapia.

Keywords: spiritualità, psicosomatica, sistema nervoso autonomo, teoria polivagale, benessere.

1. La dimensione trascendente

La preghiera risulta una tra le più antiche e diffuse forme di intervento finalizzate ad alleviare la sofferenza umana. Attraverso sistemi di elementi simbolici e rituali, l’umano può connettersi con il divino, ricercando un significato nell’esistenza e attivando il sistema di attaccamento nella speranza di poter ricevere aiuto nella quotidianità e in situazioni di estrema difficoltà (Simão et al. 2016).

Un aspetto cardine del rapporto tra l’individuo e la dimensione trascendete riguarda il riconoscerne la natura di relazione oggettuale che si declina e assume molteplici accezioni, dalla funzione protettiva a quella rituale, fino a poter assumere aspetti punitivi e giudicanti (Kernberg 2012). Il mondo interiore di ciascuno di noi, infatti, è abitato dalla presenza di qualcosa che è altro da Sé per cui, su diversi livelli, la rappresentazione dell’altro, e quindi anche del divino, riflette contemporaneamente aspetti intrapsichici e tracce di esperienza interpersonale, visto che l’esistenza stessa non può prescindere da un assetto relazionale e dall’ingaggio sociale che abbiamo con gli altri.

Alla base del dinamismo psichico, espressione vitale dell’umano, si evidenzia l’influenza agentiva della spiritualità, espressione della trascendenza. Ne consegue che l’emergere della spiritualità, quando è vissuta nel migliore dei modi ovvero come promotore di benessere, favorisce l’ascolto, l’elaborazione delle rappresentazioni oggettuali, l’agency nonché la costruzione di un legame di fiducia e sicurezza con l’altro da Sè. Questi benefici, però, comportano lo sforzo di fare spazio alla dimensione trascendente abbandonando una posizione ego-centrata e mono-dimensionale e aprendosi ad un rapporto di reciprocità e riconoscimento con ciò che non è possibile controllare né conoscere (Kernberg 2012).

In questo contesto, la storia della psicoanalisi evidenzia il rapporto tormentato, soprattutto agli inizi, tra spiritualità e psicologia del profondo. Come è noto, infatti, Freud, preoccupato dalla necessità di inserire la nuova disciplina caratterizzata dalla concenzione dell’inconscio come contenitore di forze psichiche presenti ma non visibili in una Weltanschauung scientifica, delimita il campo della psicologia da quello della religione, relegando la spiritualità ad una illusione necessaria per l’uomo. Diverso sarà, in questo senso, invece, il ruolo attribuito alla spiritualità nell’opera di Jung che, lungo tutta la sua opera, ribadirà l’importanza della dimensione trascendente come fattore fondamentale della vita psichica individuale e collettiva.

L’esperienza oggettuale della spiritualità, di essere riconosciuti e protetti, e la sensazione di fare parte di un tutto che va oltre la realtà fenomenica, permette di sperimentare una relazione che consente l’esplorazione fiduciosa dell’ambiente, interno ed esterno, al fine di promuovere la formazione di un Sé profondo e lo sviluppo della personalità. Come tutte le relazioni oggettuali, anche quella con la spiritualità può avere una potenziale funzione regolativa delle nostre emozioni: come le relazioni della prima infanzia, infatti, nelle quali il bambino interiorizza la relazione con il caregiver e in base alla quale sperimenterà processi di regolazione più o meno efficaci che proteggono da un terrore senza nome (Bion 1962) e che lo accompagneranno nelle fasi successive di vita. Fonagy (2017) definisce fiducia epistemica questo rapporto primario con l’oggetto, capace di contribuire al benessere e alle abilità di resilienza sulla base delle aspettative, dell’intenzionalità e della fiducia con cui si protende verso l’altro (inteso come oggetto intra e inter psichico, spirituale e potenzialmente cosciente), rendendo possibile riconoscere l’oggetto come organizzatore di senso. La fiducia, intesa come atto di ingaggio, connessione e comunicazione con l’oggetto e quindi atto di fides, permette quindi di andare oltre la paura, i confini Sé-Altro, e permette di sperimentare l’unicità di ciò che non è visibile. Assumere un atteggiamento più libero e quindi più vulnerabile rispetto al rapporto con ciò che è Altro da noi consente l’accesso ad una posizione trascendente (Grotstein 2007) che sottende la capacità dell’individuo di tollerare i propri limiti, lasciando aperta la possibilità di orientarsi e lasciarsi ispirare da componenti spirituali. In questo senso, il trascendente come oggetto incarnato nei simboli religiosi, nella liturgia e nella preghiera stimola un processo trasformativo e di ingaggio sociale, catalizzato attraverso la connessione con l’altro da Sé.

Anche nella concezione kleiniana (Klein 1978), la posizione depressiva caratterizzata dalla consapevolezza della propria aggressività verso un oggetto prevalentemente buono rappresenta una posizione mentale con profonde implicazioni religiose e spirituali (van der Velde & Hegger 2018). In questo stato mentale, l’individuo può sperimentare la necessità della redenzione, della purificazione e della riparazione della relazione, assumendo una posizione responsabile e profondamente morale rispetto a ciò che è altro da Sé.

Con l’introduzione dell’idea di posizione trascendente (Grotstein 2007), intesa come posizione mentale più evoluta rispetto alla posizione depressiva, vi è il tentativo di andare oltre questi vissuti colpevolizzanti o di contenimento di pulsioni distruttive per sottolineare l’importanza per il benessere psichico della riscoperta emotiva del lasciare libero l’oggetto interiore di andare e venire, superando le angosce di separazione e frammentazione. La posizione trascendente introdotta da Grotstein (2007) si pone, quindi, come superamento della dicotomia kleiniana fra posizione schizoparanoide e posizione depressiva, per cui l’accesso alla dimensione spirituale e trascendente è legata ad una accettazione della riduttività dell’Io, dell’importanza di essere all’unisono con ciò che è altro da noi e dalla necessità di non esercitare un controllo né relazionale né immaginativo sull’altro e sul proprio mondo interiore. Questa linea di pensiero trova delle convergenze con gli approcci cognitivisti della terza onda, con la mindfulness e l’importanza crescente attribuita nella letteratura scientifica all’interocezione, ovvero alla capacità di sentire i propri stati psicosomatici con contemplazione e accettazione senza esercitare su di essi giudizi, critiche o tentativi prematuri di racchiuderli in un senso predefinito. Immagini interiori, sensazioni viscerali, mondo onirico, rappresentazioni dell’altro parziali si pongono, quindi, come aspetti dissociati fin quando non si ha possibilità di significarli attraverso la consapevolezza interocettiva (Levine 2010; Levine 2015). La connessione tra corpo vivente e fides favorisce, quindi, l’accesso alla dimensione trascendente, al livello inconscio nella vitalità dell’hic et nunc. Un altro esempio dell’importanza di un atteggiamento trascendente, contemplativo e accettante rispetto alla vitalità del Sé è dato dal recente contributo del Bodydreaming (Dunlea 2019) che esplora l’interconnessione tra corpo e psiche, enfatizzando il viaggio terapeutico di vissuti traumatici precoci così come si manifestano nell’esperienza del sogno, generando una danza armonica tra dimensione simbolica, viscerale e trascendente.

Risulta necessario, quindi, un dibattito interdisciplinare sull’importanza della spiritualità come cardine del benessere psicosomatico. A questo proposito, Bradford (2023) affronta il tema dell’integrazione della dimensione spirituale nell’ambito dell’assistenza sanitaria, tema discusso negli ultimi decenni. A partire dagli anni ’80, infatti, in campo medico compare la parola “spiritualità” nei database scientifici e anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità (1998) definisce la salute come uno stato dinamico di benessere fisico, mentale, spirituale e sociale. Dal punto di vista psicoterapeutico, considerare l’esperienza spirituale del paziente non può prescindere dall’avere una visione integrata del suo funzionamento, delle sue attitudini riflessive e delle radici storiche e culturali da cui proviene. Compito del terapeuta è cogliere rispettosamente i significati e le funzioni che le credenze e le pratiche religiose assumono nell’esperienza psichica dell’individuo. Il paziente, ad esempio, trova conforto e sostegno nella sua esperienza spirituale? Oppure la vive in modo ansioso, punitivo e giudicante? Operazioni di scissione, diniego, tendenze antisociali, narcisistiche, paranoiche o addirittura psicotiche possono influenzare una visione negativa della religiosità. Viceversa, in altre situazioni le pratiche religiose si pongono come filtro in grado di ridimensionare le tendenze psicopatologiche svolgendo il ruolo di sollievo e fattore protettivo (van der Velde & Hegger 2018). L’esperienza della fides, ad esempio, come esperienza affettivamente significativa è in grado di contribuire e rendere più profonda l’esperienza di amare (Kernberg 2012). Questo graduale superamento di un investimento oggettuale interno a favore di una nuova dimensione spirituale, potrebbe favorire modalità relazionali più favorevoli. Ad esempio in pazienti con attaccamento insicuro, potrebbe favorire uno stile di attaccamento sicuro facendone esperienza nella relazione con il divino (Granqvist & Kirkpatrick 2016).

Kernberg (2012) discostandosi, quindi, dagli assunti formalizzati da Freud (1927) secondo cui il clinico si pone in un assetto libero dalle catene della fede e dalle restrizioni culturali che accecano il sentire terapeutico e che pregiudicano la scientificità dello “schermo opaco”, fornisce una nuova lettura del rapporto tra psicoanalisi e religione, valicando il tradizionale aut aut. Secondo l’Autore, la religione può considerarsi un ambito separato, importante per la coesione sociale, ma autonomo dall’indagine psicologica. La visione del divino da parte del soggetto racchiude in sé anche proiezioni personali che, col passare degli anni, si depositano in significati collettivi perché assorbiti dalla cultura di appartenenza e dai rispettivi rituali. Chiaramente, la riflessione che è importante fare è l’uso che il paziente e la collettività fanno della spiritualità e del credo religioso. Ad esempio, Milgram (1974) evidenzia come obiettivi razionalmente pre-costruiti possono sfociare in condotte regressive e far diventare minacciosi. Ulteriore esempio potrebbe essere il pensiero bioniano (1961) che fa riferimento a regressioni di dipendenza o lotta-fuga derivanti dalla fedeltà e dalla natura della leadership. O ancora gli studi di Turquet (1975) sulla tendenza degli ampi gruppi a regredire verso smarrimento e diffusione di Sé in assenza di direzionalità e solida leadership. Parallelamente, la religione offre degli spunti analoghi sulla natura potenzialmente distruttiva dell’affiliazione alle sue pratiche e credenze, se messa al servizio di spinte regressive all’interno della collettività o dell’animo umano. Ne è un esempio il terrorismo di matrice religiosa, a cui tristemente assistiamo nella nostra contemporaneità. L’aggressività e le tendenze regressive basate sull’attivazione di una risposta individuale o collettiva di attacco/fuga ad una minaccia trasforma la spiritualità e la fede in una ideologia religiosa fondamentalista che, invece di favorire l’incontro con l’altro e lo scambio, promuove l’annullamento del contatto e la conflittualità senza riparazione. Quando questo scenario prende il sopravvento, siamo di fronte ad una situazione in cui le forze distruttive e il senso di minaccia non regolato ha preso la guida della ragione (Kernberg, 2012).

2. Il contributo delle pratiche di preghiera al benessere psicosomatico

Negli ultimi decenni la comunità scientifica ha mostrato interesse crescente nell’indagare in modo rigoroso l’efficacia della preghiera come elemento (affettivo, cognitivo e comportamentale) di transizione tra salute e malattia, analizzandone l’accostamento a cure sanitarie di routine. I professionisti delle cure palliative, in particolare gli specialisti del modello biopsicosociale, ad esempio, sono stati tra i precursori a riconoscere l’importanza dell’assistenza spirituale nella presa in carico dei pazienti. La dimensione spirituale, promuovendo intimità e valori, si pone come in questo modo come promotore di un senso di appartenenza, sicurezza e benessere attivando aspetti sicuri del legame di attaccamento. In quest’ottica, la concezione del credo spirituale prescinde dalle pratiche religiose organizzate ed abbraccia anche coloro che ne restano esterni, pur sperimentando una forte credenza. Si enfatizza l’approccio interculturale e multidimensionale della spiritualità per comprendere e rispettare i differenti sistemi di orientamento morale (abitudini, valori, simboli, sentimenti, pensieri), anch’essi parte integrante delle pratiche volte alla liberazione dal dolore attraverso processi di consapevolezza corporea e psichica (Doehring 2019).

Il tema della liberazione catartica sembra segnare sia i processi spirituali sia le scienze, in particolare la psicologia e la neurofisiologia che, negli ultimi decenni, hanno proposto tecniche terapeutiche capaci di coinvolgere più organi sensoriali deputati a cooperare, all’induzione e mantenimento di equilibrio psicosomatico, riaprendo così il dibattito mente-corpo-spiritualità in un’ottica evidence-based (Doehring 2019).

La Psicologia Positiva, ad esempio, trova spesso, come ambito di ricerca centrale, l’utilizzo di tecniche e pratiche spirituali come la meditazione tradizionale e il disegno del mandala, pratica originaria dei buddisti tibetani e successivamente tecnica in ambito analitico sviluppata da Jung (con la funzione di preservare l’integrità della personalità). In un recente studio di Liu e colleghi (2020), si evidenzia come tecniche di colorazione di mandala sia individuali che gruppali hanno effetti sul potenziamento della spiritualità e promozione del benessere soggettivo e della positività individuale, soprattutto nei casi di lavoro in gruppo (Liu et al. 2020).

Prove crescenti suggeriscono che l’elaborazione dei segnali corporei o la consapevolezza corporea contribuisca all’intersoggettività, alle esperienze affettive e che abbia un profondo effetto sulle risposte sociali. Una pratica emergente e sempre più accreditata nel campo della salute è lo yoga, definito come un processo che permette ai praticanti di progredire verso un miglioramento e un senso di benessere e di integrazione mente-corpo attraverso il contatto con la dimensione trascendente. Testi antichi come gli Upanishad, il Bhagavad Gita e il Samkhya Karika offrono insegnamenti fondamentali sullo yoga e sulle sue macro-componenti principali: posture (asana), respirazione (pranayama), etica (yama and niyama) e meditazione (pratyahara, dharana, dhyana, samadhi). Attraverso gli elementi citati, la pratica supporta la trasformazione individuale nell’esperienza di malattia, dolore o disabilità, trovando terreno fertile per una ri-armonizzazione del corpo, della mente e dell’ambiente verso l’esperienza del benessere eudemonico (sattva) (Sullivan et al. 2018a). In linea con questo, vi è anche, ad esempio, la meditazione ciclica, originaria a Prashanti Kuteeram, che consiste in movimenti molto lenti volti a prendere consapevolezza di ogni piccolo cambiamento di equilibrio e tensione muscolare che favorisce l’equilibrio fisiologico, diminuendo le alterazioni dell’arousal e dei battiti cardiaci (An et al. 2010; Takahashi et al. 2005).

Dalla prospettiva fenomenologica, l’esperienza può essere esplorata nella misura in cui riflette la continua interazione e co-creazione tra corpo, mente e ambiente. Husserl (1982) definiva “atteggiamento naturale” (natürliche Grundeinstellung) la modalità attraverso cui si confronta e si conosce il mondo al di fuori degli schemi abituali, attraverso un’esperienza più approfondita dell’esperienza soggettiva. In questo è centrale il concetto di “corpo vissuto” (Merleau-Ponty 1964) che intende la modalità attraverso cui il mondo e il corpo assumono significato e diventano coscienti partendo dalla loro essenza, come se avvenisse una co-penetrazione tra soggetto e mondo, in cui il corpo è il tempio della soggettività (Sullivan et al. 2018b).

Da un punto di vista analitico, Jung (1942) esplorò la simbologia sottostante ai rituali religiosi, dando enfasi all’atto, proprio della liturgia, di mettere dentro di sé il divino, mistero capace di favorire slancio vitale ai praticanti e di fornire le condizioni psichiche profondamente radicate nell’anima umana. Simboli, metafore, miti e immaginazione attiva fungono da portali per ricercare un significato profondo dell’esperienza e dare alla coscienza un senso di significato nell’esistenza (Saremi 2020). Pratiche e senso di appartenenza risultano coinvolte e alimentano la dialettica delle dimensioni conscio/inconscio.

Recenti evidenze in letteratura riconoscono elementi comuni, ad esempio, tra pratiche yogiche e psicologia del profondo e sottolineano che la loro integrazione possa promuovere flessibilità e adattamento verso processi di guarigione mentale (An et al. 2010; Saremi 2020; Tyagi & Cohen 2016). Entrambe le prospettive individuano come costante l’importanza del cambiamento continuo, pur riconoscendo aspettati immutabili del corpo e della psiche. Facilitano il dialogo tra la dimensione conscia e inconscia e sostengono elementi come la perdita, il dolore, la ciclicità continuativa della natura e della vita umana. Si concentrano su processi di auto-indagine, auto-trasformazione e auto-realizzazione, includendo una visione dell’essere umano come entità olistica, ovvero riconoscendone l’insieme inscindibile delle sue parti (corpo, mente e spirito). Particolari stili di preghiera, pratiche di Mindfulness (es. Mindfulness-Based Movement, MBM) e posture dello yoga (es. Nidra) sono ampliamente utilizzate in letteratura per mitigare i segni disregolativi tipici, ad esempio, del disturbo da stress post-traumatico (PTSD), i sintomi depressivi (Chu et al. 2017; Cramer et al. 2017; Hughes & Stoney 2000; Saremi 2020), ansiosi (Amjadian et al. 2020; Boelens et al. 2009; Brown & Gerbarg 2005; Pascoe & Crewther 2016), di lutto traumatico (Doehring 2019) e integrate nella cura dei pazienti affetti da carcinoma (Jim et al. 2015; Lucas et al. 2018; Olver & Dutney 2012).

Numerosi trial randomizzati, che ponevano come focus di studio il rapporto tra cure mediche standard e pratiche di preghiera intercessoria (ovvero preghiere da parte dei propri cari), evidenziano effetti positivi della preghiera soprattutto negli utenti che erano consapevoli di ricevere protezione, rispetto a coloro che la ricevano senza esserne a conoscenza che, al contrario, mostravano maggiori complicazioni cliniche (Roberts et al. 2009). Anche la preghiera di supplica, analogamente a quella intercessoria, promuoveva effetti benefici nella pratica clinica relativamente a ridotti decessi, ridotto periodo di degenza e migliori prognosi (Simão et al. 2016). Inoltre, effetti benefici della preghiera cristiana sono noti, ad esempio, nell’accompagnamento verso la fine dell’esistenza (Ball & Vernon 2015) e nella riduzione dello stress (Chirico et al. 2020).

3. Il contributo della teoria polivagale alla comprensione dell’efficacia delle pratiche spirituali

In linea agli studi riportati, un importante contributo in ambito neuro-psico-fisiologico che vede centrale il ruolo del Sistema Nervoso Autonomo (SNA), principale sistema coinvolto nella relazione mente-corpo, è la Teoria Polivagale (PVT) elaborata da Stephen Porges (2009). La PVT partendo dallo studio dell’evoluzione del SNA enfatizza i substrati e processi neurofisiologici deputati alla regolazione emotiva, alle risposte difensive di sopravvivenza e al coinvolgimento sociale, fornendo spiegazioni plausibili sui pattern di risposta alla base dei disturbi affettivi e comportamentali.

Porges (2001, 2007, 2009), tracciando le origini filogenetiche delle strutture cerebrali, sottolinea gli aspetti neurofisiologici e neuroanatomici del decimo paio di nervi cranici, il nervo vago, componente principale del sistema nervoso parasimpatico (SNP). La teoria propone che i diversi rami del nervo vago siano associati a specifiche strategie comportamentali adattive e articola tre diversi sottosistemi funzionali che sono gerarchicamente organizzati in base all’azione biologica evolutiva che esercitano (Porges & Furman 2011). Il ramo dosale-vagale (fibre non mielinizzate) è la componente filogeneticamente più primitiva del SNP, condivisa con i rettili e con quasi tutti i vertebrati, fornisce la regolazione vagale primaria ed è responsabile degli organi sotto-diaframmatici (es. intestino). Il circuito neurale dorsale supporta reazioni di ipo-arousal (es. diminuzione del battito cardiaco) e utilizza l’immobilizzazione o freezing come strategia di difesa che il vertebrato funzionalmente, spegnendo il comportamento osservabile, sembra fingere la morte (paradosso vagale, la maggior parte delle funzioni psicofisiologiche sono apparentemente spente per garantire la sopravvivenza) (Porges 2009). Questo sistema di difesa si attiva durante casi di pericolo schiacciante e intollerabile. Il secondo ramo, sviluppatosi dall’evoluzione dei vertebrati, è il sistema nervoso simpatico (SNS) che agisce da antagonista al dorsale. Le fibre simpatiche, producendo catecolamine, forniscono risorse metaboliche necessarie ad una risposta di “lotta/fuga”: di fronte al pericolo, il corpo agisce immediatamente, se possibile, per combattere o per ritirarsi se la minaccia è insostenibile o imminente. Il ramo più evolutivamente complesso, che condividono tutti i mammiferi, è il ventrale-vagale (fibre mielinizzate), circuito autonomo primario coinvolto in un sistema integrato di impegno e ingaggio sociale e regolazione degli organi sopra-diaframmatici (es. cuore, bronchi). A livello funzionale, il circuito ventrale-vagale detiene il ruolo di mediatore tra il SNS e la contro parte dorsale e potrebbe essere concettualizzato come un processo di co-regolazione.

Porges introduce il concetto di “neurocezione” definendolo un processo automatico attraverso il quale il SNA effettua una valutazione dell’ambiente, rintracciando indizi di rischio o sicurezza senza ricorrere ad una conscia consapevolezza (Porges 2009). Rilevare l’ambiente come sicuro o minaccioso, consente di cambiare lo stato fisiologico al fine di ottimizzare la sopravvivenza. La neurocezione quindi innesca e anticipa processi che riguardano sia sensazioni consce ambientali (esterocezione) sia il monitoraggio conscio dei cambiamenti corporei (interocettivi), veicolando risposte interne (paura, calma), osservabili (attacco/fuga, freezing, stabilità/rilassamento) sulla base di processi di inconscia consapevolezza del SNA. Ciascun circuito neurale (o sottosistema funzionale) è in grado di essere dominante a seconda della neurocezione di sicurezza/pericolo rilevata nell’ambiente. La percezione di uno stato di sicurezza, stimola il sistema di difesa ventrale-vagale. Le fibre mielinizzate, supportano la fiducia, la stabilità relazionale le funzioni prosociali (la mobilitazione –sistema simpatico- diventa gioco e l’immobilizzazione –circuito dorsale- diventa intimità, riposo). Al contrario, la percezione di minaccia o insicurezza, sollecita nel SNA risposte di lotta/fuga; tuttavia, se non è in grado di combattere e/o fuggire, il sistema entra nel paradosso: il ramo dorsale-vagale favorisce un immediato, involontario e temporaneo spegnimento per garantire la sopravvivenza.

L’evoluzione della specie, attraverso le fasi della filogenesi, ha consentito la strutturazione di un’organizzazione neurale funzionale che regola lo stato viscerale per supportare il comportamento sociale. Il ramo ventrale-vagale è responsabile di processi relazionali e viene considerato in letteratura un sistema neurale di impegno sociale (Kok & Fredrickson 2010; Porges 2001). Il funzionamento del sistema è sostenuto dalla regolazione e dall’attività di moltissimi substrati neurali che, collettivamente, dalle strutture superiori della corteccia a quelle interne situate nel tronco (es. nucleo ambiguo) cooperano e controllano i muscoli per modulare processi di risposta sensoriali e garantire l’ingaggio sociale. I motoneuroni corticali regolano i neuroni motori inferiori per consentire l’apertura delle palpebre; i muscoli striati del viso consentono l’espressione facciale; i muscoli dell’orecchio medio consentono di discriminare la voce umana dal rumore di fondo; i muscoli della laringe e faringe permettono la vocalizzazione e linguaggio (Porges 1998). La regolazione autonomica risponde in senso funzionale alle richieste metaboliche interne ed esterne sia nei casi di mantenimento dell’omeostasi sia nei casi di ripristino e protezione da condizioni-stimolo estreme (sistema di impegno sociale in costante interazione con l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene). Le componenti inibitorie del SNA (es. porzione visceromotoria del nucleo ambiguo) agiscono attraverso le fibre mielinizzate efferenti sugli organi-bersaglio situati nelle periferie (Porges 2001).

Questo sistema nervoso “sociale” muove i suoi primi passi già nelle fasi iniziali di vita e consente al neonato di co-partecipare e imparare dall’ambiente, attraverso la comunicazione non verbale, stimoli sensoriali (es. suoni, odori, sensazioni tattili). Nel rapportarsi con il caregiver, l’infante si servirà di stimoli visivi, come le espressioni del volto che lo guideranno in maniera automatica ad interagire con una specifica risposta il più possibile coerente al contesto. Se troverà un volto sereno, dai lineamenti distesi proverà ad entrare in relazione; se al contrario troverà un volto imbronciato, con smorfie o peggio inespressivo (es. esperimento della still face – Tronick 1978), non reattivo, il neonato proverà un senso di agitazione e reagirà evitando l’interazione o sperimentando paura. Proseguendo, anche il tono della voce risulta essere un indizio di sicurezza/minaccia nell’ambiente. Le voci prosodiche permettono di mantenere uno stato fisiologico di benessere, come anche il canto che, non solo controlla la respirazione, ma promuove ritmicità, intonazione e rilascia un senso di sicurezza, non a caso i neonati si abbandonano alla dimensione onirica anche grazie al canto.

Lo studio dell’anatomia e dalla neurofisiologia del cuore, ispirò Porges ad estrarre le caratteristiche neurali della regolazione vagale a partire dalla variabilità della frequenza cardiaca (HRV), misura principale dell’attività del SNA. Le fibre vagali cardio-inibitorie mostrano un andamento di scarica che segue quello della respirazione (Hayano & Yasuma 2003; Yasuma & Hayano 2004). Questo permise all’Autore di sviluppare un metodo per quantificare l’aritmia sinusale respiratoria (RSA), che rappresenta un indice funzionale di un circuito neurale a feedback che regola l’influenza inibitoria del vago mielinizzato (tono vagale) sul nodo senoatriale che, a sua volta, inibisce la frequenza cardiaca (freno vagale) (Porges 2007, 2023).

Alle vie efferenti (SNC-SNP) ed afferenti (SNP-SNC) confluiscono sia fibre del ramo simpatico che parasimpatico. Infatti l’influenza sulla frequenza cardiaca (HR) sarà data tanto dalla parte vagale, quanto dalla controparte simpatica: la prima lo diminuisce/regola e la seconda lo aumenta. Per cui avremo tutta una serie di modificazioni fisiologiche dell’organismo a seconda della maggiore influenza del ramo simpatico o di quello parasimpatico. Il ritrovamento di un equilibrio omeostatico, dato da questo reciproco e continuo andamento di carica/scarica del SNA consente di considerare il tono vagale come marker fisiologico della regolazione emotiva, delimitandone le alterazioni dell’arousal (Porges 1998).

Numerose evidenze (Appelhans & Luecken 2006; Morton et al. 2022; Poli et al. 2021; Kolacz et al. 2021, 2023; Heilman et al. 2023; Bailey et al. 2023; Dale et al. 2018; Dana 2018) riportano che nella psicopatologia e in condizioni di alto stress i processi efferenti ed afferenti possono essere compromessi e questa compromissione potrebbe esprimersi in una disregolazione duratura del SNA e in una persistente inattività o iperattività di uno dei due rami di questo sistema. Maggiore è la variabilità della frequenza cardiaca, maggiore sarà la regolazione della stessa e quindi dell’attività autonoma, poiché l’aumento dell’HRV coincide con un aumento della flessibilità fisiologica, ovvero una maggiore variazione del battito cardiaco in una determinata condizione, capace di rispondere in modo elastico e duttile alle richieste ambientali (Porges et al. 2023).

In accordo al modello di integrazione neuroviscerale (Thayer & Lane 2000), potremmo considerare il tono vagale, indicizzato dall’HRV, come espressione di integrazione funzionale dei circuiti neurali implicati nei processi emotivi e cognitivi. Park & Thayer (2014) sottolineano che parametri più elevati di HRV risultano connessi ad una modulazione cognitiva ed emotiva più adattiva, rispetto a livelli inferiori di HRV che risultano invece associati a risposte cognitive ipervigili che ostacolano la regolazione emotiva (regolazione prefrontale ipoattiva e strutture sottocorticali iperattive) (Gross 1998; Gross & Thompson 2007). Evidenze in letteratura ci consentono di considerare ridotti livelli di HRV come predittori e fattori di rischio sull’aumentato di mortalità cardiaca o morte improvvisa (Khattab et al. 2007; Tsuji et al. 1994).

A questo punto è importante chiedersi: la teoria PVT può aiutare a spiegare l’effetto benefico delle pratiche religiose? Innanzitutto, è importante sottolineare come questo modello ha dato vita all’utilizzo o alla comprensione di una serie di pratiche bottom-up (dal corpo alla cognizione) che recuperano antiche pratiche spirituali (basti pensare fra tutte le mindfulness o il canto, elemento tipico della liturgia religiosa). Inoltre, come messo in luce da un bel lavoro sulle applicazioni della PVT al funzionamento di gruppo (Flores & Porges 2017), il gruppo può rappresentare un momento fondamentale di “esercizio neurale” per promuovere l’ingaggio sociale e il senso di appartenenza degli individui tra loro. Quale miglior occasione della partecipazione al momento liturgico per promuovere questi aspetti? Durante la celebrazione liturgica, infatti, il coinvolgimento nel canto, la condivisione della prossimità fisica, gli sguardi condivisi, sono alcuni degli aspetti corporei e non verbali che permettono l’ingaggio sociale con l’altro favorendo un senso di accoglienza, reciprocità, condivisione e riscoperta della sicurezza. Inoltre, molti studi approfondiscono l’utilizzo in psicoterapia di tecniche che si basano su meccanismi di auto-potenziamento, auto-regolazione come strumento di sviluppo o ritrovamento di benessere mentale. La mindfulness e lo yoga, seguendo un adeguato e costante training, si è visto influenzare risposte cognitive, regolazione degli stati emotivi e comportamentali mediate dallo stress (Gard et al. 2014). Elemento centrale è proprio dato dal fatto che la pratica religiosa promuove il processo di interocezione, attraverso cui si diventa consapevoli del proprio corpo e di come quest’ultimo reagisce agli stimoli intrapsichici e ambientali. Mantenere costante la pratica, non solo consente di di automatizzare e rendere efficiente nel tempo posture, atteggiamenti, riflessività e concentrazione.

La sensibilità interocettiva e il rilevamento della frequenza cardiaca rappresentano una dimensione di fondamentale importanza. I praticanti avanzati, ad esempio, riportano maggiore concentrazione interiore, maggiore consapevolezza soggettiva dei processi corporei/viscerali rispetto ai non praticanti (Fiori et al. 2016). È stato dimostrato che l’incoraggiamento di una conscia consapevolezza dei fenomeni mente-corpo, assume carattere centrale nella cura dei pazienti: favorisce processi di reinterpretazione degli ambienti propriocettivi ed esterocettivi, migliora la regolazione emotiva e la resilienza (Sullivan et al. 2018a).

In ottica terapeutica, la PVT (Porges 2011) fornisce elementi di riflessione sulle modalità per riconoscere e gestire i substrati neurali sottostanti agli stati psichici e direzionarli a favore di strategie adattive di integrazione somatopsichiche. Seguendo l’assunto secondo cui le terapie mente-corpo sviluppano una connessione bidirezionale con le vie vagali del sistema parasimpatico, potremmo considerarle il “mezzo” con cui attuare processi di regolazione, contenimento, elaborazione degli stimoli, avvalendoci delle sue caratteristiche di reperibilità e immediatezza. In tal senso, la terapia, come sostengono Porges e Dana (2018), diventerebbe un esercizio neurale (Lucas et al. 2018).

È stato riscontrato che pratiche di respirazione, di meditazione, di canto influenzano sia processi afferenti che efferenti e fungono da tramite nel coinvolgimento attivo del complesso ventrale del vago (Hayano & Yasuma 2003; Porges & Carter 2017). Momenti spirituali e liturgici si connotano quindi come strategie di applicabilità dei processi neuro e psico-fisiologici (Arias et al. 2006; Tyagi & Cohen 2016; Fabbro 2014). Se da un lato, le tecniche spirituali mettono a disposizione le modalità effettive e concrete capaci di promuovere il benessere e l’integrazione mente-corpo, dall’altro le teorie scientifiche come la PTV esplicitano i processi fisiologici, inclusi i relativi rischi e benefici che coordinano e consentono le pratiche stesse. In una prospettiva olistica, dunque, è importante andare oltre il dualismo spiritualità vs scientificità visto che gli attributi comuni di questi due ambiti, consentono di accedere ad una fenomenologia della complessità, in cui la relazione mente-corpo-trascendenza trova terreno fertile per rivelare aspetti manifesti e interni, consci e inconsci. Attraverso la regolazione degli stati autonomici e, più in generale all’attività del SNA si può cogliere la relazione bi-direzionale del dialogo oggetto di studio.

Evidenze empiriche in letteratura (Cysarz et al. 2004; Lucas et al. 2018; Sarang & Telles 2006; Telles et al. 2016; Drury et al. 2019) consentono di verificare l’applicabilità del modello olistico descritto nel presente lavoro, ponendo come focus centrale il ruolo dell’HRV, strumento cardine non invasivo per studiare l’attività autonoma cardiaca.

Diversi sono gli studi che indagano l’apporto benefico, ad esempio, delle pratiche spirituali nei parametri di regolazione cardiaca, sottolineandone la complessità per via delle differenti tecniche di rilassamento e, non da meno, dovendone considerare le specifiche caratteristiche cardiache dei soggetti al basale. Sono risultate più efficaci nel ridurre l’arousal fisiologico e quindi nell’aumentare l’attività vagale cardiaca (es. valori più elevati di HF, pNN50) pratiche di rilassamento guidato, rispetto a sessioni di rilassamento autonome o cure mediche standard (Telles et al. 2016; Vempati & Telles 2002), dopo le quali l’HR e la pressione sanguigna (BP) ritornavano più rapidamente al livello basale. Il confronto tra sessioni di rilassamento yogiche e sessioni placebo di rilassamento, ad esempio, ha reso possibile evidenziarne la validità in termini di fluttuazioni negli indici HRV. Khattab e colleghi (2007) hanno confrontato l’HRV in praticanti di yoga e non praticanti durante esercizi yogici tradizionali ed esercizi placebo, riscontrando al termine dell’osservazione, avvenuta in modalità cieca, che l’intervallo medio delle onde R dell’ECG risultava più elevato (dato dagli indici del tono vagale SDNN e RMSSD) durante le sessioni yogiche rispetto a quelle placebo e ai parametri cardiaci dei non praticanti. Rispetto ai parametri indici dell’attività simpatica, quest’ultima sembra prevalere durante attività fisica come le posture (asana), soprattutto nei casi di pratica yogica ciclica, mentre l’attività parasimpatica aumenta e regola il sistema autonomo una volta terminata la pratica (Sarang & Telles 2006).

Cysarz e colleghi (2004) hanno indagato in contesto terapeutico l’attività dell’RSA e durante la recitazione guidata di poesie in esametri (versi che consentono di procedere con una bassa frequenza di respirazione), evidenziando una significativa sincronizzazione cardiorespiratoria, rispetto a momenti di respirazione controllata o ancor meno spontanea. Similarmente, Bernardi e colleghi (2001) hanno condotto una sperimentazione utilizzando come trigger la recitazione di preghiere. La recitazione ciclica rallentava, o meglio favoriva, ritmicità della respirazione e, coerentemente, promuoveva una maggiore variabilità della frequenza cardiaca (tono ventrale-vagale). La spiritualità, anche prescindendo da setting sperimentali e valutata sulla base dei vissuti soggettivi autoriferiti, sembra essere associata ad un miglior controllo o regolazione autonoma, in cui la credenza e la pratica spirituale in sé favoriscono un equilibrio tra il circuito simpatico e parasimpatico (Berntson et al. 2008).

In conclusione, il presente contributo fornisce uno spunto di riflessione sull’importanza delle pratiche spirituali al benessere psicosomatico. In accordo con le evidenze riportate, sarebbe opportuno nella presa in carico clinica dei pazienti, soffermarsi sul rapporto bidirezionale mente-corpo, dedicando attenzione alla dimensione corporea (che fornisce informazioni circa le condizioni interne sfavorevoli ed è capace di dialogare con il ramo ventrale del vago) e psichica (che consente di rendere visibile gli attributi profondi ed è promossa da pratiche corporee di rilassamento).

L’assistenza sanitaria olistica nella cura centrata sul paziente, dovrebbe tenere in considerazione in toto le necessità dei pazienti e rispondere nella maniera più congrua alle loro richieste. Ad esempio, nel fronteggiare l’esigenza della preghiera assistita, si potrebbe richiedere l’inclusione di figure religiose nell’equipe sanitaria. Considerando le pratiche di preghiera come interventi palliativi efficaci e non farmacologici, si potrebbe riflettere sull’implementazione di tali interventi atti non solo a migliorare il decorso, ma anche gli esiti economici sulla salute e sulla sostenibilità clinica (Simão et al. 2016).

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