Moretti P.1 & Zebi L.1
1 Cattedra di Psichiatria, Università degli studi di Perugia, Perugia (PG)
ABSTRACT
L’Anoressia Nervosa (AN) è un Disturbo della Nutrizione e dell’Alimentazione (DNA) caratterizzato da un’alterazione persistente del comportamento alimentare, che prevede l’assunzione limitata di cibo a causa dell’intensa paura di aumentare di peso, con preoccupazioni eccessive riguardanti forma e peso corporei (APA 2013). Il digiuno costituisce la forma principale e più drammatica di restringimento alimentare in questi pazienti. Allo stesso tempo, esso rappresenta un gesto chiave e dalla profonda valenza simbolica nel contesto di numerose religioni, nelle quali assume una valenza catarchica e di allontanamento dai desideri terreni.
INTRODUZIONE
L’Anoressia Nervosa (AN) viene definita, secondo i criteri del DSM-5, dalla contemporanea presenza di restrizione dell’introito energetico tale da comportare un peso significativamente basso, intensa paura di aumentare di peso o il persistere in comportamenti che interferiscono con tale incremento ed anomalia nella percezione di peso ed immagine corporea (APA 2013).
Dal più ampio punto di vista psicopatologico, l’AN può essere inquadrata come un disturbo complesso in cui il digiuno arriva a rappresentare al contempo un mezzo di autoaffermazione e di controllo onnipotente sugli altri. A questo aspetto si aggiunge, inoltre, la negazione della sessualità in un corpo che cresce; lo schema corporeo viene infatti alterato a tal punto da inficiare un corretto esame di realtà (Sarteschi & Maggini 1989; Lalli 2002). Spesso la personalità pre-morbosa presenta dei tratti ossessivi, configurandosi come tendenzialmente anaffettiva e perfezionista soprattutto nel campo degli studi, ma al contempo pervasa da un forte senso di insicurezza ed impotenza, che determina la tendenza a ricercare la compiacenza dell’ambiente e dei familiari (Sarteschi & Maggini 1989; Lalli 2002; Gabbard 2014). Quest’ultimi sono spesso invischianti e tendono a proiettare preoccupazioni ed aspirazioni sul soggetto, che si sente una loro estensione e dipende completamente da loro, portando alla comparsa anche di ansia da separazione; non essendosi mai davvero separato ed individualizzato, infatti, non ha mai potuto sviluppare un adeguato senso di Sé (Gabbard 2014).
La comparsa dell’AN è inquadrabile come una rottura rispetto a quanto descritto. La convinzione irrealistica di essere sovrappeso, i disturbi gastrointestinali ed il rifiuto del cibo sono tra i primi sintomi a comparire. Solo dopo, sempre sotto la cappa della negazione totale della malattia, si verificherà il calo ponderale, accompagnato da iperattività motoria o altri meccanismi di compenso, e la patologia si renderà evidente anche agli occhi dell’ambiente familiare (Lalli 2002). A questo punto, finché il cibo è fuori di sé, il soggetto con AN non esperisce ansia né angoscia; finché l’ambiente esterno, odiato e vissuto come ostile, viene controllato, si impedisce la disintegrazione dell’Io. Un esempio paradossale di tale controllo è il non raro riscontro di soggetti affetti da AN che si interessano di cucina e preparano i pasti per i propri familiari (Lalli 2002).
Per quanto concerne la manifestazione di AN negli uomini, si stima che solo il 5-10% dei pazienti affetti da AN sia di sesso maschile (Gabbard 2014). Nonostante il quadro psicopatologico e clinico sia sostanzialmente sovrapponibile a quello delle controparti femminili, i pazienti di sesso maschile tendono più spesso ad essere inquadrati nell’ambito di un DNA Non Specificato o di un Disturbo Evitante/Restrittivo dell’Assunzione di Cibo; mediamente utilizzano l’esercizio fisico come meccanismo di compenso, presentando anche preoccupazioni circa la propria immagine corporea più improntate alla muscolosità (e alla Vigoressia) che alla magrezza (Gabbard 2014, Timko et al. 2019).
Un aspetto da non sottovalutare è che i pazienti affetti da AN, a causa delle sequele di denutrizione e condotte di eliminazione, hanno un’alta prevalenza di complicanze mediche, che determinano una ridotta qualità della vita ed una compromissione dello stato di salute, configurando l’AN come una psicopatologia con tassi di morbidità e mortalità particolarmente elevati rispetto ad altri disturbi psichiatrici (Arcelus et al. 2011, Gravina et al. 2018, Westmoreland et al. 2016). Nel contesto del pericoloso dualismo mente-corpo dell’AN, si evidenzia dunque anche la necessità di una stratificazione del rischio organico che vada al di là del Body Mass Index (BMI), tenendo in considerazione aspetti endocrinologici, nutrizionali ed inerenti la composizione corporea, alla ricerca di potenziali biomarkers da individuare e monitorare sia nelle fasi più gravi della patologia sia in quelle di remissione, come ad esempio insulinemia a digiuno, ormoni sessuali, tiroidei e dello stress, leptina e micronutrienti (Hübel et al. 2019, Støving 2019, Winston 2012).
Sempre maggior interesse rivestono le comorbidità dei DNA con i tratti e i disturbi di personalità, in base alle quali sono stati individuati alcuni sottotipi di pazienti: un sottotipo ad alto funzionamento con minimi disturbi di personalità; un sottotipo disregolato dal punto di vista emotivo e comportamentale con tendenze borderline ed istrioniche; un sottotipo insicuro-evitante con tendenze ansioso-depressive e di evitamento sociale; un sottotipo restrittivo-ossessivo che manifesta tendenze anancastiche e rigidità. I pazienti inquadrabili in quest’ultimo profilo sono coloro che più spesso presentano caratteristiche correlabili all’AN, ma il DNA manifestato non è in realtà così direttamente correlabile al sottotipo di personalità (Rotella et al. 2016). Si è tuttavia rilevato che i tratti di personalità più associati con i DNA a partire dall’adolescenza sono quelli relati all’affettività negativa (es. disregolazione emotiva, tendenze borderline, insicurezza) e ed al distacco (es. inibizione, introversione, alienazione sociale) (Dufresne et al. 2019). Inoltre, sembrano essere maggiormente prevalenti i disturbi di personalità riferibili al cluster C per l’AN, differentemente da quanto avviene in soggetti affetti da bulimia nervosa che sarebbero più spesso inquadrabili nel cluster B: più in generale, soggetti che mostrano comportamenti restrittivi tendono ad essere più ossessivo-compulsivi o evitanti, soggetti che fanno abbuffate e condotte di eliminazione più che altro borderline (Buzzichelli et al. 2018; Rotella et al. 2016).
IL DIGIUNO NELLE RELIGIONI
Il digiuno non rappresenta il solo rifiuto del cibo, ma ritrae nel mondo interiore un’affermazione ancestrale della propria componente spirituale. Il rifiuto del cibo simboleggia il rifiuto di una realtà peccaminosa, traviata, colpevole di contaminare l’immacolata purezza interiore. Non a caso, il digiuno costituisce in ambito religioso un atto di purificazione e di catarsi.
Nel Cristianesimo, in particolare, l’astinenza dal cibo è legata al periodo della Quaresima. La frase pronunciata da Gesù Cristo “non di solo pane vivrà l’uomo” è riportata sia nel Vangelo di Matteo (Matteo 4,4) che di Luca (Luca 4,4) e costituisce la risposta di Gesù alla tentazione del diavolo di trasformare in pane le pietre del deserto, per saziare la fame sopravvenutagli dopo 40 giorni e notti di digiuno. Tale espressione è emblematica del ruolo di Cristo nei Vangeli, nei quali rappresenta il Verbo che si fa persona. Gesù non dà la regola, ma ne costituisce il compimento. Non a caso, la celebre frase è preceduta dall’espressione “sta scritto:”, in quanto rappresenta una citazione al libro quinto della Torah (nonché dunque al quinto libro dell’Antico Testamento, il Deuteronomio), e alle parole di Mosè in riferimento ai 40 anni del popolo ebraico nel deserto verso la terra promessa: “Egli [Dio] dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per insegnarti che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che vive di tutto quello che procede dalla bocca del Signore” (Deuteronomio 8,2).
Nell’Ebraismo il digiuno è previsto in varie occasioni; quello più conosciuto e praticato è il digiuno di Yom Kippur, che si rifà al giorno in cui Mosè scese dal monte Sinai con le Tavole della Legge, ed è menzionato quattro volte nella Torah (Esodo 30,10; Levitico 23,27-31 e 25,9; Numeri 29,7-11). E’ il giorno in cui secondo la tradizione Dio suggella il suo accordo con il singolo uomo, che assume responsabilità etiche verso di Dio per le proprie azioni, che non risponderanno più dunque ai giudizi morali costruiti sugli “idoli” scelti dallo specifico individuo o dalla comunità. Non a caso, nella Torah la scena delle Tavole della Legge è preceduta dalla vicenda del vitello d’oro (Esodo 32): in assenza della regola divina (e dunque delle tavole portate da Mosè) il popolo guidato da Aaronne costruisce un vitello d’oro, che inizia a venerare come divinità.
Il tema del digiuno ricorre anche nella religione musulmana, dove uno dei cinque pilastri dell’Islam (Arkan al-Islam) previsti dalla Shari’a è costituito dal sawm, ossia dal digiuno intermittente tenuto in ottemperanza alla legge di Allah nel mese lunare del Ramadan. Il digiuno rappresenta simbolicamente l’affidarsi alle parole del Corano (e dunque di Allah), il riconoscere come la spiritualità espressa nell’attenersi meticolosamente alla regola alimenti il corpo tanto quanto il cibo. Il Corano recita: “è nel mese di Ramadan che abbiamo fatto scendere il Corano, guida per gli uomini e prova di retta direzione e distinzione. […] Allah vi vuole facilitare e non procurarvi disagio, affinché contempliate il numero dei giorni e proclamiate la grandezza di Allah che vi ha guidato” (Corano 2:185). La privazione del cibo diventa strettamente associata alla regola divina, affermazione della matrice culturale islamica, rifiuto della realtà esterna e abbandono nella realtà spirituale.
Il Buddhismo sottolinea la componente del digiuno connessa all’autodisciplina: l’astensione dal cibo è un esercizio pratico ma che si eleva, tramite il proprio rigore e la propria austerità, a mezzo per raggiungere il Nirvana. Il desiderio nella visione di Buddha rappresentava il principio del male e la rinuncia ad un desiderio basilare quanto quello del cibo esprimeva l’abnegazione del male. Il digiuno è quindi nella cultura buddhista uno dei dhutanga (sacrifici) che i monaci praticano periodicamente per avvicinarsi all’illuminazione. Tramite queste rinunce viene insegnato che la moderazione conduce alla “liberazione”.
Il digiuno, o upvas in sanscrito, significa letteralmente “stare/vivere vicino” (alla divinità o al Sé più alto), indicando il movimento di unione con l’assoluto. Nelle sacre scritture indù, tramite l’upvas viene quindi ribadita la visione del digiuno come negazione dei bisogni terreni e del corpo a favore della spiritualità. Solo attraverso il controllo degli attributi terreni, del corpo e della mente, si può arrivare alla liberazione dal ciclo della rinascita.
IL DIGIUNO COME SIMBOLO
L’accostamento psicopatologia/religione in questo lavoro vuole essere un punto di vista in più che contribuisce ad allargare l’orizzonte di coscienza di psichiatri e psicoterapeuti. In questo accostamento il quadro psicopatologico viene espresso con sintomi numinosi, che richiamano a significati archetipici profondi. Nell’AN il digiuno costituisce una regola autoimposta e autoprodotta, in quanto autoreferenziale. La divinità viene sostituita dall’Io, dal mito della bellezza, dal riconoscimento da parte dell’Altro, usato come specchio per le proprie velleità. La coscienza tenta dunque di “spiazzare” l’inconscio, assurgendo al ruolo di vitello d’oro.
La restrizione, inoltre, può istituire l’affermazione della propria purezza sulla contaminazione del mondo. Come precedentemente sottolineato, la componente alimentare si va dunque a coniugare con i tratti ossessivi di personalità (Buzzichelli et al. 2018, Rotella et al. 2016).
Il digiuno come direttiva autoimposta mette in scena una chiara posizione infantile, espressa tramite il rifiuto delle regole dell’ambiente-madre (inteso come genitoriale, scolastico, sociale e culturale), avvertito come dispotico. Il sintomo mette in scena simbolicamente un senso di annullamento che viene percepito come imposto dall’esterno (la regola mi limita, dunque la regola mi annulla).
Non a caso, concretamente, nel sesso femminile l’AN priva dei nutrimenti necessari in adolescenza per un corretto sviluppo dei caratteri sessuali, determinando una fisicità androgina-infantile, e andando ad annullare le caratteristiche proprie della maturazione fisica della femminilità e, quindi, del diventare adulti.
Dunque, il digiuno e il rigore alimentare diventano un tentativo, vano, di affermazione della propria onnipotenza infantile contro le costrizioni percepite, una lotta contro l’autorità di natura adolescenziale. In questo senso, tuttavia, si possono riconoscere i tratti tipici di una fase della vita che costituisce il ponte fra l’infanzia e la maturità dell’adulto, espressi nel tentativo di sviluppo di un nucleo abbozzato e puerile su cui però si intravede uno sforzo di costruire un’identità personale, separata dai genitori e dalle regole “imposte” dall’alto. Tale tentativo è fallimentare e controproducente, ciò nonostante manifesta un’espressione (inconscia) della necessità di svilupparsi come individuo indipendente in soggetti che, a causa della propria psicopatologia, non riescono a delineare un proprio limite che consenta loro di separarsi dalle figure genitoriali e diventare figure autonome.
Una psicoterapia psicodinamica che rispetta le buone norme del setting può conciliare la necessità di autonomia con le norme di vita, fungendo da catalizzatore di sintesi fra due entità percepite da questi pazienti come incompatibili. Il setting può restituire alla regola una valenza positiva, renderla nel vissuto del paziente accogliente e sensata, consentendo al soggetto l’interiorizzazione e favorendo il processo di individuazione.
Bibliografia
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