Condizione femminile e matriarcato lungo la storia dell’umanità <br> di Francesca Perone

Condizione femminile e matriarcato lungo la storia dell’umanità
di Francesca Perone

Parole chiave: matriarcato, femminile, storia, Grande Madre, condizione, autonomizzazione.

Abstract

La lunga storia dell’umanità, così come viene descritta ed analizzata da storici e ricercatori, appare caratterizzata, almeno fino al diciannovesimo secolo, dal netto dominio del patriarcato, inteso in questo caso come “cultura patriarcale”: una supremazia maschile indiscussa ed incontrastata, non scevra da dolorose conseguenze per le donne.

Se però da un lato i dati storici ci riportano sempre a lunghissimi periodi di dominio patriarcale, la lunga concatenazione di eventi, dalle vicissitudini dell’uomo primitivo ad oggi, se letta approfonditamente, tra le righe, ci rivela un silenzioso lavorìo di meccanismi “matriarcali”, che hanno agìto quasi come un aspetto “ombra” dell’umanità.

Onde comprendere i diversi modi in cui si esplica l’azione del matriarcato, occorre approfondire la conoscenza della tematica, così come viene trattata da eminenti autori, come ad esempio Eric Neumann (1956). Costui, trattando il tema dell’archetipo della “Grande Madre”, nota come il carattere elementare del femminile nella sua esacerbazione o nella sua assenza, venga a configurarsi, nella vita psichica del soggetto e nel collettivo, come presenza della “Grande Madre Terribile”;

In questa ottica il matriarcato non è che il risultato di una forma di imprigionamento prolungato della coscienza ad opera di alcuni elementi del femminile che oscurano gli aspetti evolutivi dell’individuo (uomo o donna) e del collettivo. Questa configurazione intrapsichica si rivela in manifestazioni comportamentali, dell’uomo e della donna, spesso contraddittorie ed autodistruttive, anche se apparentemente generate da intenti amorevoli. Mediante un eccesso (di presenza o di assenza) od una distorsione di alcuni aspetti del carattere elementare, la coscienza viene intrappolata e non può compiere un adeguato processo verso “la luce”. Affinché l’io nascente del bambino non resti eternamente intrappolato nell’amalgama uroborico dell’inconscietà materna, è necessario che la madre sia competente nell’attivare il secondo carattere del femminile: quello trasformatore, che presiede alle imprescindibili capacità di autonomizzazione dell’individuo. L’azione di questo carattere è catalizzata e coadiuvata dal paterno, che funge da forza contro-gravitazionale rispetto a quella del grande pianeta materno, dal quale il piccolo Io del bambino deve decollare.

Analizzando la storia del materno e del matriarcato è possibile notare come fino al secolo scorso l’umanità si sia automaticamente sottoposta alla “mistica della femminilità”, così come descritta da Betty Friedan, aderendo ad un ideale di donna identificata con i ruoli canonici di moglie e madre, nonostante l’ambizione a realizzarsi anche al di fuori dell’ambito domestico. Dopo quell’evento storico-sociale sfaccettato chiamato “femminismo” la donna è riuscita ad emanciparsi, conservando in sé, tuttavia, i precetti matriarcali di cui era tradizionalmente portatrice. Ad oggi molti disturbi, devianze, patologie e problematiche sociali, portano le tracce e manifestano le conseguenze del permanere di tali inconsci precetti, come evidenziato da Racamier nella sua analisi su fenomeni incestuosi reali e virtuali e come mostrato da autori che si sono occupati dell’attuale fenomeno dell’“ipercura”, dietro cui possiamo rintracciare alcune distorsioni degli aspetti “animus” (di junghiana memoria) nella configurazione psicologica femminile.

Questo articolo si pone come obbiettivo il tentativo di analizzare la storia della condizione femminile e del matriarcato onde rintracciare le determinanti di alcune questioni ancora irrisolte inerenti queste tematiche.

Premessa

Il lungo ed articolato percorso umano attraverso i secoli, così come descritto da storici e ricercatori, appare contraddistinto, almeno fino alla prima metà del novecento, da un marcato dominio della cultura patriarcale, una supremazia maschile mai esplicitamente ostacolata o messa in discussione, con ripercussioni assai dolorose per le donne.

E. De Conciliis[1], citando Bourdieu teorizza che alla base di questa configurazione storica vi sia un assunto di “abitualità”: ‘nella società occidentale moderna la violenza simbolica dei dominanti nei confronti dei dominati, e in forma paradigmatica quella degli uomini nei confronti delle donne, si esercita attraverso l’incorporazione di schemi di percezione e valutazione di sé e degli altri, ovvero con la complicità di strutture mentali inconsce precocemente apprese attraverso ingiunzioni corporee che egli definisce col termine latino habitus, participio passato passivo di habeo, avere: qualcosa di ricevuto o acquisito attraverso l’apprendimento, prima attraverso l’educazione familiare e poi attraverso quella scolastica, e che tuttavia viene vissuto dall’individuo che lo indossa come disposizione naturale contribuendo a costituire il senso e il valore della sua identità sociale’.

In quest’ottica il patriarcato, prevalendo nella sua estremizzazione fallica, ha mantenuto per secoli la figura femminile relegata a ruoli marginali, così come descritto da vari autori, come Cavina (2017) e come documentato già ai tempi di Bachofen, autore dell’opera “Matriarcato” (1861). Le donne, di contro, sono state spesso discriminate in molte culture del mondo che riconoscevano loro capacità e mansioni limitate alla procreazione e alla cura della prole e della famiglia; in molte popolazioni mondiali.

Se però da un lato i dati storici ci riportano sempre a lunghissimi periodi di dominio patriarcale, la lunga concatenazione di eventi, dalle vicissitudini dell’uomo primitivo ad oggi, se letta approfonditamente, tra le righe, ci rivela un silenzioso lavorio di meccanismi “matriarcali”, che hanno agìto quasi come un aspetto “ombra” dell’umanità. Si tratta di elementi del femminile caratterizzati da conservazione, cura, nutrimento e mantenimento di stabilità che nella loro estremizzazione possono oscurare gli aspetti evolutivi dell’individuo (uomo o donna) e del collettivo. Una configurazione intrapsichica improntata sull’eccesso di tali caratteristiche si rivela in manifestazioni comportamentali, dell’uomo e della donna, spesso contraddittorie ed autodistruttive, anche se apparentemente generate da intenti amorevoli.

Grassi e Berivi[2], nel trattare la tematica delle conseguenze nefaste di tali meccanismi, precisano in nota che ‘Parlare di matriarcato non significa parlare del potere delle donne in quanto tali, ma di un sistema di valori matriarcali che può essere agito dalle donne come dagli uomini’[3].

Le origini della vita psichica

Come già descritto altrove[4], onde comprendere i diversi modi in cui si esplica l’azione del matriarcato, occorre approfondire la conoscenza della tematica, così come viene trattata da eminenti autori, come ad esempio Eric Neumann (1956). Costui, trattando il tema dell’archetipo della “Grande Madre”, nota come il carattere elementare del femminile nella sua esacerbazione o nella sua assenza, venga a configurarsi, nella vita psichica del soggetto e nel collettivo, come presenza della “Grande Madre Terribile”; proprio come, secondo Fornari[5], per il neonato la fame non è assenza di cibo nello stomaco, ma presenza di un “mostro” che divora le budella.

In principio ciò che costituisce la tragicità dello stato di disagio del neonato non risiede nel suo contenuto (fame, pannolino sporco, bisogno di coccole), ma nel suo non poter immaginare che presto interverrà la madre a porvi rimedio. È un attimo che dura un “per sempre”; la madre intimamente ne è consapevole ed è per questo che, se non è disturbata da disagi particolarmente profondi, non può resistere al pianto ed accorre. Dopo la prima esperienza di unione con la madre, ad esempio la suzione, ogniqualvolta il neonato avverta il senso di fame ricorre alla nozione di seno immaginando la soddisfazione del bisogno ancora prima che arrivi. Naturalmente si tratta di un processo graduale, non immediato: il piccolo individuo diviene sempre più abile nelle operazioni pensare, immaginare, aspettare; ma ciò richiede una sorta di allenamento, un continuo reiterarsi dell’esperienza.

Neumann definisce carattere elementare l’aspetto del femminile che tende, in quanto grande cerchio, grande contenente, a mantenere fermo ciò che da esso sorge e a circondarlo come sostanza eterna; si estrinseca inoltre nell’offrire protezione, nel nutrire e nel riscaldare. L’aspetto conservatore, stabile ed immutabile di questo carattere del femminile è predominante nel materno e diviene evidente in tutti i casi in cui l’Io sia ancora immaturo, la coscienza non ancora sviluppata l’inconscio materno abbia la supremazia nella configurazione psichica del soggetto.

Il bambino inizialmente vive sé stesso come incluso nella personalità materna in quanto ancora “imprigionato” nell’inconscio. Occorrono, come detto, le prime esperienze spiacevoli (il sentire il morso della fame, ad esempio) affinché il piccolo possa immaginare la presenza della madre accanto a sé, che nel momento della disperazione è assente. È proprio in quel momento, infatti, che esperisce il fenomeno della separatezza ed inizia a comprendere che lui e la madre sono due entità differenti e non un tutt’uno. In questo modo il piccolo Io del bambino comincia a prendere forma, emerge dall’amalgama inconscio nel quale era come “avviluppato”. Nella relazione tra Io ed inconscio si assiste ad una sorta di gravitazione psichica: è come se l’inconscio fosse un enorme pianeta dotato di una potente forza di gravità dal quale l’io del bambino, appena abbozzato, come un piccolo razzo non riesca a decollare. In questa ottica il matriarcato non è che il risultato di una forma di imprigionamento prolungato della coscienza ad opera di alcuni elementi del femminile che potenzialmente bloccano l’evoluzione e l’acquisizione di autonomia da parte dell’individuo. Mediante un eccesso (di presenza o di assenza) od una distorsione di alcuni aspetti del carattere elementare, la coscienza viene intrappolata e non può compiere un adeguato processo verso “la luce”. Questo fenomeno si verifica a partire dalla nascita che, per il neonato, è il primo passo del processo di individuazione, e si reitera lungo il cammino ontogenetico dell’uomo nella storia. Affinché l’io nascente del bambino non resti eternamente intrappolato nell’amalgama uroborico dell’inconscietà materna, è necessario che la madre sia competente nell’attivare il secondo carattere del femminile: quello trasformatore, che presiede alle imprescindibili capacità di autonomizzazione dell’individuo. L’azione di questo carattere è catalizzata e coadiuvata dal paterno, che nella metafora planetaria di cui sopra, funge da forza contro-gravitazionale rispetto a quella del grande pianeta materno, dal quale il piccolo Io del bambino deve decollare. Secondo Neumann, a prescindere che nel processo sia coinvolto un essere maschile o femminile, la coscienza è percepita come maschile. Lo svincolo dell’Io dall’inconscio materno-femminile è una lotta dell’eroe maschile contro la Grande Madre. Il carattere trasformatore si esplica in questo processo e lo agevola ove non sia esacerbato il carattere elementare negativo. Se infatti il carattere trasformatore è troppo debole, il processo di liberazione è percepito come una lotta asperrima contro la Grande Madre Terribile, ovvero l’aspetto più oscuro, mortifero e divorante delle immagini archetipiche del materno.

In termini descrittivi, le prime, fondamentali operazioni genitoriali atte a facilitare nel piccolo l’esordio del proprio processo di individuazione è la reverie a cui fa riferimento Bion (1967). Riguardo alla funzione di reverie del genitore, che costruisce nel neonato proprio l’apparato “per pensare i pensieri”, tramite il sostegno e il contenimento delle angosce di morte che il piccolo vive, Grassi (2010) suggerisce l’idea che la funzione di maternage, consistente nella capacità di accogliere dentro di sé le angosce del neonato, farle proprie e metabolizzarle in modo da trasformarle da cose concrete in vissuti psicologici (pensieri e immagini), sia in realtà una componente di paternage della reverie, misconosciuta dallo stesso Bion. Comprendere il senso delle angosce neonatali e quindi rispondere a quello specifico significato in modo adeguato è una funzione tipicamente maschile; questa funzione dell’animus, la più elevata (nella sua quarta manifestazione, l’Animus è l’incarnazione del senso[6]), può essere esercitata da entrambi i genitori, ma fa parte del bagaglio antropologico del “paterno”.

Il matriarcato lungo la storia

  1. Preistoria

Nelle società preistoriche, che basavano il proprio sostentamento sulla caccia e sull’agricoltura, l’uomo rivestiva il ruolo di approvvigionatore di selvaggina: si allontanava spesso da accampamenti e villaggi insieme agli altri uomini e tornava dopo lunghe battute di caccia. La donna, invece, accudiva i figli e procurava prodotti commestibili seminando e poi dedicandosi alla raccolta. Successivamente, nelle civiltà mesopotamiche (Egitto, Persia, Assiria, Babilonia), la figura femminile guadagnò un prestigio mai avuto in passato, conquistando una posizione molto elevata all’interno della società. In questi luoghi è stata documentata la presenza reale di organizzazioni sociali di stampo matriarcale nelle quali la cerchia delle donne amministrava le ricchezze, coordinava la vita sociale e determinava in gran parte l’orientamento della vita politica; ma poi, con l’ascesa delle monarchie militari, le donne, e con loro il modus vivendi da loro stesse improntato, persero prestigio. In quel periodo vennero creati i ginecei, luoghi situati all’interno delle dimore dai quali le donne non potevano uscire e dove non potevano vedere nessun uomo ad eccezione degli eunuchi e del proprio marito.

     2. La Grecia

Come analizzato da S. Blundell (1995), nella Grecia omerica la donna veniva rispettata, ma esistevano anche numerose contraddizioni: nell’età di Pericle, ad esempio, la donna ricca era tenuta in casa, mentre le donne povere erano costrette a lavorare uscendo di casa e quindi godevano di un certo grado di libertà.

Lo statuto della donna in Grecia appare variabile, come ogni altra realtà storica, in base ai diversi luoghi e ai diversi tempi compresi nell’arco assai esteso della storia ellenica. Alcuni elementi sono tuttavia considerati costanti della condizione femminile:

  • La diffusa sottomissione giuridica della donna all’uomo (con sostanziale esclusione dal diritto di cittadinanza);
  • La preclusione di determinate attività ritenute monopolio del mondo maschile;
  • Per converso, il monopolio riconosciuto alle donne su determinate attività che risultano interdette (o comunque disonorevoli) per un uomo;
  • Il conseguente tratteggio di una caratterologia femminile ritenuta “naturale”, inversa e simmetrica rispetto alla corrispondente caratterologia virile, piuttosto che ascritta a precise condizioni sociali, economiche e culturali. Le donne non avevano diritti politici (non potevano quindi votare o essere elette membri dell’assemblea, durante l’età della polis) e non erano oggetto di legislazione giuridica (una donna non era colpevole, ad esempio del reato di adulterio, a differenza dell’uomo, perché ritenuta “oggetto del reato”).

La donna passava il tempo esclusivamente con altre donne in una cerchia di sole donne, spesso a contatto con la madre del marito, nel gineceo, quindi quest’ ultima aveva un ruolo primario sulla sua educazione.[7]

Dunque esistevano, nell’antica Grecia, due forme di organizzazione matriarcale: il gineceo domestico, di cui di fatto l’uomo era il “padrone” della cerchia di donne; ed il bordello, gestito da una donna (un’etèra), che contrariamente alla moglie godeva di una reale indipendenza economica e stabiliva, con l’uomo, un rapporto basato su forme di scambio intellettuale e commerciale. Anche in questo caso, però, la libertà femminile aveva un prezzo: escludeva, infatti, la relazione erotica basata sul coinvolgimento affettivo/sentimentale. Inoltre, probabilmente proprio a causa della mancata sottomissione dell’etèra, costei era comunque giudicata in senso negativo dalla comunità maschile.

     3. Antica Roma

Come documentato da Cenerini (2002), nella legislazione romana relativa al matrimonio vigeva un fattore di differenziazione assai cospicuo rispetto alla Grecia: la donna romana (la filia familias) era a tutti gli effetti dotata di diritti economici che le consentivano di ereditare dal pater familias e di disporre (pur entro limiti assai ristretti) del patrimonio avito. Tale facoltà era tuttavia ampiamente compensata dal diffuso pregiudizio, ben presto ratificato a livello giuridico, per cui la donna, in virtù di una naturale infirmitas o imbecillitas mentis (debolezza intellettuale), non poteva prendere decisioni senza essere affiancata da un tutore legale (maschio, adulto e cittadino), per questo esse non avevano il ius suffragii e il ius honorum. Al di là dei diritti civili, le matrone ricoprivano di fatto il medesimo ruolo avuto in Grecia dalle γυνή: prendersi cura della domus nell’ambito della famiglia romana, sotto la protezione e la tutela del pater familias, fosse esso il padre oppure il marito.

Nonostante l’apparente favore di cui godeva la donna romana, rispetto a quella greca, l’elaborazione di stereotipi secolari sul carattere delle donne (si pensi solo a Giovenale) deve alla cultura romana ancor più di quanto debba alla cultura greca: dai romani li erediteranno i Cristiani, che, nonostante l’egualitarismo che anima il cristianesimo primitivo, non tarderanno a far propri e addirittura a rincarare i pregiudizi sessistici della cultura pagana.

     4. Il Cristianesimo

Come documenta Valerio (2016), il Cristianesimo considerava naturale la sottomissione della donna all’uomo, ma la donna, tuttavia, era considerata importante in quanto doveva crescere spiritualmente i figli. Nella diffusione della cultura cristiana, che permeò e si integrò alla preesistente cultura celtica, per successivi passaggi, le donne, considerate poiché a loro erano attribuiti grandi poteri (le fate e le streghe), vennero ritenute poi rappresentanti del Diavolo sulla Terra, capaci di trarre in inganno l’uomo spingendolo al peccato in qualsiasi modo.

Nel cristianesimo, Dio veniva definito in termini tipicamente maschili, quali padre, signore, re, giudice, ribaditi anche, dove possibile, nell’iconografia artistica. Questo dato era confermato anche dalla formulazione del dogma trinitario, che associava all’idea di un “Dio padre” quella di un “Dio figlio”, mentre la terza persona della Trinità (neutro nell’espressione greca di pneuma e femminile in quella ebraica di ruah) è tradotta anch’essa nelle lingue europee con il termine maschile di “Spirito”.

     5. Lo Gnosticismo

Nel medesimo periodo storico, come descritto da Moraldi (1982) è tuttavia esistita una tradizione cristiana-gnostica[8] che descriveva Dio in termini di dualità sessuata: una preghiera gnostica recitava: ‘Da Te, Padre, e tramite Te, Madre, i due nomi immortali, genitori dell’essere divino’. Secondo lo gnostico Valentino, pur essendo in realtà indescrivibile, Dio poteva essere espresso come “Padre e Madre del Tutto”, o “Padre Silenzio” (alogia, femminile) dove il “Silenzio” era concepito come il grembo che riceve il seme dalla “Fonte ineffabile”, generando coppie di energia maschile e femminile.

Veniva, forse per la prima volta nella storia delle religioni, accostato il principio femminile-ricettivo a quello maschile-penetrante, ed entrambi, in unione, riconosciuti come basi della generatività universale[9]. Alla grande rilevanza assunta nella gnosi dall’elemento femminile corrispondeva un ruolo importante rappresentato dalle donne nelle comunità gnostiche, anche in quelle nelle quali si era sviluppata una teologia meno radicale sotto l’aspetto “femminista”, come la marcionita, che riconosceva alle donne il diritto di diventare preti e vescovi, come presso i valentiniani; la montanista, che pare sia stata fondata da due donne, Prisca e Massimilla e la carpocraziana.

Nella seconda metà del II secolo, assunse maggiore impeto la polemica contro le dottrine gnostiche, già in corso, soprattutto a causa delle invettive del vescovo Ireneo. La polemica, ovviamente, verteva sul ruolo paritario all’uomo assunto dalle donne nelle comunità cristiane gnostiche.

     6. Il Medioevo

Il medioevo rappresenta un lungo periodo storico fitto di contraddizioni e caratterizzato, in Italia ed in Europa, dall’importanza della Chiesa cattolica in differenti vicende belliche, nella cultura e, più in generale, nella società.

A partire dal V secolo in poi i conventi cristiani permisero alle donne di sfuggire al ruolo precostituito di moglie e madre permettendo loro così di acquisire un’alfabetizzazione e livelli di scolarizzazione anche più elevati, oltre che di svolgere un ruolo religioso maggiormente attivo. Anche in questo caso, dunque, come nell’antica Roma per le vestali, la donna aveva modo di acquisire uno status sociale dignitoso al di fuori dell’angusto panorama domestico, solo tramite la religione, che le garantiva addirittura un’istruzione.

     7. Il Rinascimento

Come descritto da Arcangeli e Peyronel (2008), con il Rinascimento la posizione delle donne cambiò radicalmente, sia negli eventi politici e storici, sia nella società. Non esisteva più la figura femminile come oggetto passivo di scambi decisi tra uomini, tutori o familiari, in base a strategie d’alleanza. Pur essendo il matrimonio ancora il punto centrale che legava i destini delle grandi famiglie e di interi Stati, tra il Cinquecento ed il Settecento le donne iniziarono ad occupare anche spazi diversi, diventando protagoniste degli eventi storici ed in alcuni casi di guerre. Grazie alle dinamiche della discendenza di sangue, le donne rinascimentali (duchesse, marchese, principesse o regine) entrarono in politica. Il loro ruolo era ancora spesso marginale e l’educazione femminile era più modesta di quella degli uomini, ma le figure femminili ebbero spesso il predominio nell’articolato panorama politico e culturale di questo periodo. Anche le donne non illustri ricoprivano ruoli diversi rispetto al passato: molte, infatti, accedevano a discipline prima a loro precluse, quali la medicina; in precedenza potevano solo applicare, ed in modo prettamente empirico, non certo scientifico, l’arte dell’ostetricia, considerata da sempre, per tradizione, appannaggio femminile, come narrato dalla Worth (2002). Come descritto da De Col (2008) e da altri autori (1975, 1984), guaritrici ed herbarie si mostravano palesemente abili nell’applicazione di cure che risultavano non meno efficaci e sicure di medicine e medici. D’altro canto la popolazione, essenzialmente rurale, non aveva altre possibilità per curarsi che ricorrere ai loro rimedi, meno costosi di quelli provenienti dalla medicina ufficiale; questo dato rese probabilmente “invidiosi” gli esperti uomini che si videro defraudati di un ruolo considerato quasi sacro, pertanto, spesso con argomentazioni posticce (criminalità, riti satanici, eresia), erette solo a giustificazione di una vera e propria persecuzione, queste donne venivano tacciate di stregoneria, eresia o magia nera. Molte di loro, tra il cinquecento ed il settecento, vennero arse sul rogo. Il fantasma di un matriarcato basato sulla magia nera incombeva, incrementato dal pregiudizio, pertanto vennero ideati e messi in atto diversi metodi di tortura (anche codificati) per estorcere confessioni di discutibile credibilità a queste donne ed avere poi materiale su cui basare l’esito fatale dell’inquisizione: il rogo.

L’entità del fenomeno “caccia alle streghe” (che includeva però anche maghi e stregoni) ha assunto, nelle tre ondate a partire dal ‘400, le proporzioni di un vero e proprio olocausto. Le stime che trovano più largo consenso parlano di circa 110.000 processi, svoltisi in diversi paesi e spesso culminati in condanne a morte.

   8. Il settecento

Nel ‘700 la condizione sociale della donna andò incontro ad importanti mutamenti, ma solo nelle classi agiate. Si diffusero, specie in Francia, i salons: riunioni di intellettuali, artisti e filosofi presso salotti privati (e per gli uomini anche presso i cafè), presso i quali si discuteva di questioni sociali, culturali e politiche. A molte donne era consentito riunirsi e conversare, così ebbero inizio i prodromi di quello che sarebbe divenuto in seguito il processo di autocoscienza che portò le donne ad essere consapevoli del proprio stato di subordinazione nei confronti del sesso maschile. La dilagante diffusione della nota corrente culturale denominata “illuminismo”, a causa della quale ad una matrice di pensiero ormai obsoleta, fondata sul pregiudizio e sulla tradizione, venne sostituita da una nuova maniera di interpretare la realtà, basata sulla ragione, rese uomini e donne coscienti del fatto che anche alla donna dovessero spettare diritti fino ad allora negati. Presso i salotti, dunque, le donne iniziarono a parlare della propria condizione di mogli, madri e donne, giungendo a formulare ipotesi indipendentiste e creando le precondizioni per la generazione di quel movimento che si è proposto (e si propone tutt’oggi) il preciso scopo di ottenere l’equiparazione della donna all’uomo, sia nel campo civile che in quello socio-politico, con il diritto della donna di realizzare liberamente la propria personalità e che viene denominato oggi femminismo.

     9. Nascita del femminismo

Come desumibile dal contributo di Fraire (1978) differenti sono le datazioni a cui si attribuisce l’avvio di tale movimento; lo si fa risalire in genere al periodo della rivoluzione francese, quando nel 1792 Olympe de Gouges presentò al governo rivoluzionario una “Declaration des Droits des Femmes” nella quale venivano richiesti per le donne tutti i diritti civili e politici. Il termine “femminismo” è entrato nell’uso e nel senso corrente grazie a Hubertine Auclair a partire dal 1882. Prima di allora designava una malattia maschile (tipo “femmineo”, femminuccia). Le prime femministe lottarono in Francia per il diritto al divorzio (1872-81): Dumas figlio le chiamerà “femministe”, ma in senso dispregiativo. Circa un anno dopo la divulgazione della “Declaration des Droits des Femmes”, venne pubblicato un libro intitolato “Vindication of the Rights of Woman” di Mary Wollstonecraft che segnò l’inizio del movimento femminista in Inghilterra. Il primo paese del mondo in cui si ottenne il suffragio femminile fu la Nuova Zelanda, nel 1893.

Successivamente in Inghilterra, grazie al testo dell’inglese John Stuart Mill, “The Subjection of Woman” del 1869 le donne inglesi ottennero il diritto di voto, ma solo limitatamente ai consigli municipali e poi, nel 1880, nei consigli di contea. Nel 1903 nacque un movimento politico femminista che lottò, con comizi e manifestazioni pubbliche, per ottenere il diritto di voto femminile: le militanti furono chiamate suffragette. Nel 1918 l’agognato diritto di voto venne ottenuto.

Negli Stati Uniti le femministe lottarono altrettanto tenacemente, senza ricorrere, però, ad azioni violente: loro manifestazioni tipiche furono parate, cortei con fiaccole e striscioni, comizi e marce di protesta finalizzate a sensibilizzare l’opinione pubblica. Proprio negli Stati Uniti, tuttavia, si verificò, all’inizio del secolo, un terribile episodio che la giornata della donna ricorda tuttora: l’8 marzo 1908 morirono durante un improvviso incendio, in un’azienda tessile di New York, 129 operaie riunitesi in sciopero all’interno dell’edificio.

Il movimento femminista aveva percorso una lunga strada e proprio in quel periodo Maria Montessori si laureò in medicina; era la terza donna in Italia a laurearsi in quella facoltà. Quell’assunto di base di stampo matriarcale che più tardi la Friedan[10] chiamerà “mistica della femminilità” condiviso da uomini e donne (anche se da queste ultime vissuto spesso con rancore), in base al quale la donna era quell’essere da sempre votato alla cura esclusiva delle faccende domestiche, cominciò ad essere messo in discussione a livello manifesto, continuando però ad operare nell’inconscio individuale e collettivo. Questo fatto ebbe come esito, da allora in poi, un andamento ossimorico della storia della donna: a lotte collettive in piazza e nei posti di lavoro, si alternavano ripensamenti nella sfera privata e molte donne, giunte al traguardo del matrimonio, rinunciarono a quanto conquistato fino al giorno prima. Come documenta C. Saraceno (1980), benché l’avere figli negli anni ’70 non fosse già più una tappa socialmente inevitabile, rappresentava ancora un metro di giudizio decisivo sulla femminilità. Ancora oggi, duemila anni di storia patriarcale pesano sulla mentalità delle donne che, come reazione, si “vendicano” della loro stessa sottomissione mettendo il potere e la competizione con l’altro sesso al posto della relazione.

     10. Tra Ottocento e novecento

A cavallo tra ottocento e novecento, la nascita della psicanalisi per opera di Sigmung Freud gettò una nuova luce sulla psicologia femminile e sulle patologie individuali che avevano una concausa nella situazione sociale di subordinazione all’uomo e di mancata soddisfazione sia sessuale, sia di autorealizzazione al di fuori delle mura domestiche. La frustrazione generava nelle donne specifici disturbi, individuati soprattutto sul versante dell’isteria (da histerctus = utero nel tardo latino)[11]. Inizialmente il panorama medico, nell’interpretare tali patologie, aveva ceduto al pregiudizio in base al quale l’isteria fosse indizio di una personalità poco dotata, immatura, suggestionabile ed iperemotiva, ma poi, grazie agli studi di Freud e del collega Breuer riportati nei quattro volumi Studi sull’isteria[12] venne provato che questo genere di pazienti non era affatto caratterizzato (donne o uomini che fossero) da queste caratteristiche ricorrenti. I due studiosi elencano diversi esempi a riprova di questa tesi: ‘La signorina Anna O… è di intelligenza notevole, dotata di intuizione acuta e di una sorprendente capacità di afferrare le relazioni tra le cose. Questo vigoroso intelletto avrebbe avuto la possibilità di alimentarsi di un valido nutrimento spirituale, di cui avrebbe avuto bisogno, ma che invece non ha più ricevuto dopo la fine della scuola’[13]; in questa descrizione è ravvisabile anche l’aspetto di amara rinuncia in merito ad aspirazioni che l’avrebbero condotta ad una soddisfazione intellettuale superiore rispetto a quella che le era stato permesso di raggiungere.

     11. Dagli anni sessanta del novecento

Del composito movimento noto come “femminismo”, nato a partire dagli anni sessanta il primo traguardo importante, come detto, è stato il conseguimento del diritto di voto per il quale si batterono le suffragette. In seguito ai conflitti mondiali le donne, che avevano rimpiazzato nei posti di lavoro i molti uomini mandati al fronte, ottennero maggiori ruoli in società e possibilità lavorative fuori dalla famiglia. Altre tappe importanti sono state: la possibilità del divorzio, la legalizzazione dell’aborto e l’indipendenza economica. Parallelamente è nata una florida corrente di studi sulla condizione femminile; anche gli studi classici hanno conosciuto un diffuso risveglio d’interesse per la storia, la sociologia, l’antropologia del mondo femminile in età antica. Ne è nato addirittura un autonomo filone di ricerche, i cosiddetti “Women’s Studies”, documentato da A. Taronna (2004), particolarmente fertile in àmbito anglofono (specie statunitense) e francofono, e oggi ormai del tutto canonizzato. L’interesse prevalente degli Women Studies era incentrato sui discorsi maschili sulle donne, sulla costruzione sociale e culturale degli stereotipi e dei pregiudizi relativi al mondo femminile, sulla loro frequente assunzione a dogmi pseudo-scientifici e sulla loro costituzione in una compiuta teoria della differenza sessuale (i cosiddetti “Gender Studies”, le ricerche sulle differenze fra i sessi).

La critica al “ruolo femminile” si è manifestata a partire dal 1963 con l’uscita, negli Usa, del libro di Betty Friedan, Mistica della femminilità,[14] nel quale l’autrice analizzava il processo storico che ha portato la donna ad auto-imprigionarsi nei ruoli domestici. Con il termine “mistica della femminilità” infatti descriveva la forma mentis della donna degli anni cinquanta che non differiva di molto da quella vittoriana dell’ottocento: la giovane di quel periodo, infatti, in alcuni casi studiava, spesso trovava un lavoro, ma tutto nell’attesa del momento di sposarsi, avere bambini e diventare “l’angelo del focolare” che tutti si aspettavano. La Friedan viveva il conflitto, tipico di molte sue contemporanee, tra ciò che le sembrava naturale e ciò che invece avrebbe voluto (senza tuttavia averne un’idea precisa, conoscendo solo l’amarezza della delusione di sapere che tutto si ferma adesso, e che non si farà più alcun uso di tutto ciò che si è imparato) ed intervistando qualche anno dopo diverse studentesse coglieva lo spesso spirito di rassegnazione tinto da un’auto-imposta, ipocrita forma di allegria, ma sottilmente venato di quell’amarezza da lei percepita qualche anno prima. In quel sentimento oscuro, potente, ma nascosto alla consapevolezza, consiste quello spirito matriarcale (la situazione psicologica nella quale, come insegna Neumann, prevale l’inconscio insieme ad alcune caratteristiche femminili “conservatrici”) che rischia di deteriorare la femminilità, anziché elevarla.

Anche l’Italia può vantare alcune eminenti rappresentati della coscientizzazione e successiva testimonianza della situazione femminile a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta: Ada Prospero Marchesini Gobetti, ad esempio, ha rappresentato per le giovani degli anni ’50 un punto di riferimento, tramite la sua attività di pubblicista e di responsabile di rubriche apparse su “L’Unità” e “Paese Sera”. L’autrice illustrava un nuovo e differente modo di vivere che il pensiero democratico poteva conferire al percorso esistenziale dell’uomo, della donna e della famiglia, cambiando l’intera società. I suoi scritti mettevano in guardia le donne dalla tentazione, molto più potente e sottile di quanto si potesse allora immaginare, di arrendersi ai precetti maschilisti, di stampo conservatore, ancora in voga nel dopoguerra, nonostante la parità dei diritti fosse stata ormai sancita a livello formale dalla Costituzione italiana. Nel 1951 commentò[15] sarcasticamente il noto Corso di felicità domestica di Andrè Maurois divulgato in diversi paesi europei e letto in radio. L’autore utilizzava una coppia fittizia, Filippo e Marisa, la cui unione felice doveva basarsi sul “compromesso”, inteso come perdita d’identità della moglie per compiacere il marito. Un esempio eclatante di tale dinamica si rileva nel momento in cui Marisa “minaccia” Filippo dicendogli che continuerà gli studi per farsi una carriera indipendente e Filippo ‘sente impennarsi la sua volontà sovrana e decide di impedirglielo sposandola’[16]

La Gobetti rilevava lucidamente come perdurassero tracce di morale tardo-ottocentesca in una realtà contraddittoria caratterizzata da speranze e paure, tradizione e modernità in conflitto tra loro sottolineando come andasse socialmente mantenuto un precario equilibrio di pacata ignoranza, sfidata da alcuni studiosi e pedagogisti (come Gramsci, Lombardo Radice in Italia; Dewey, Kilpatrick e Decroly in ambito anglosassone e Makarenko in U.R.S.S.) tra resistenze ed opposizioni, soprattutto in materia di laicizzazione della scuola. La Gobetti si inserì in questo filone ideologico facendo notare all’opinione pubblica che il tasso di scolarizzazione in quegli anni era ancora troppo basso, specie per le donne e che solo con un adeguato livello culturale era possibile pervenire ad un processo di coscientizzazione della propria condizione tale da mettere in atto strategie comportamentali idonee a superare quella falsa morale obsoleta, ma ancora attiva e generare un cambiamento nella società. Quello rilevato dalla Gobetti è un tipico meccanismo di stampo matriarcale: le donne sono ancora, a tutt’oggi, in parte soggiogate dalla “mistica della femminilità”; a causa di questa inconscia attrazione rischiano di autodistruggersi rinunciando ad ogni aspirazione extra-domestica e successivamente possono anche andare incontro ad agìti di matrice aggressiva nei confronti dell’uomo per il quale si sono sacrificate proiettando su di lui la responsabilità (spesso effettivamente condivisa), delle proprie rinunce.

La risposta rivoluzionaria femminile all’oppressione sessista maschile, però, se da un lato è servita alla donna per conquistare una nuova dignità sociale, in alcune sue manifestazioni ha fatto pendere il braccio della bilancia dall’altra parte, dove, paradossalmente, il femminile si è oscurato accaparrandosi il fallicismo del patriarcato antecedente e trasformando la donna in un’amazzone moderna; una virago efficientissima, ma sofferente, perennemente stanca e profondamente sola. La donna, infatti, cadendo nell’equivoco che la parità di diritti si identificasse con una parità dei ruoli, si è messa in competizione con l’altro sesso tentando di assolvere tutte le funzioni possibili, senza alcun riguardo per alcuni aspetti della femminilità che andrebbero cautamente preservati.

La voce dell’Animus

Allo scopo di analizzare in maniera più accurata questa dinamica è utile fare ricorso alle formulazioni di C.G. Jung, il quale ben descrisse le caratteristiche inconsce del maschile e del femminile facendo ricorso ai concetti di “animus” ed “anima”[17]. Nella vita psichica di ogni individuo, secondo l’autore, alberga un aspetto controsessuale con caratteristiche femminili per l’uomo e maschili per la donna, esattamente come accade per gli aspetti biologici (le donne dispongono anche di una piccola quota di ormoni maschili, proprio come nell’uomo si trovano ormoni femminili). Tale “dotazione”, oltre a renderci esseri umani più completi, permette a ciascuno di comprendere ed approcciare l’altro sesso. Nell’uomo l’anima si manifesta con le caratteristiche femminili di sensibilità, ricettività, intuito, accoglimento ed altro, nella donna l’animus si manifesta come volontà direzionata, razionalità, capacità di progettazione e determinazione.

Jung definì “Animus” (termine che in latino significa spiritola personificazione maschile dell’inconscio nei sogni delle donne. Anche l’Animus, come l’Anima, passa attraverso un processo di sviluppo in quattro fasi che Marie Louise Von Franz individua nel modo seguente: ‘Dapprima si manifesta come la personificazione del mero potere fisico, per esempio come un campione di atletica, un uomo tutto muscoli. Nella fase successiva rivela il suo spirito di iniziativa e la capacità di svolgere un’attività pianificata. Nella terza fase, l’Animus diventa la “parola” […] Infine, nella sua quarta manifestazione, l’Animus è l’incarnazione del senso. A questo più alto livello diviene (come l’Anima) il mediatore dell’esperienza religiosa e di conseguenza la vita acquisisce un nuovo senso. Fornisce alla donna fermezza spirituale, un invisibile sostegno interiore che la compensa della sua fragilità esterna.’[18]A questo livello più alto l’uomo interiore funge da collegamento con il Sé. Personifica le capacità di coraggio, spirito e verità della donna e la pone in contatto con la fonte della sua creatività personale. Ma, come l’Anima-vampiro nell’uomo, l’Animus, nella sua forma negativa, è un parassita, personifica la brutalità, la freddezza, l’ostinazione e paralizza la crescita della donna. Allora ecco che molte donne si “ubriacano” con alcune caratteristiche “Animus” a detrimento di una femminilità più autentica, tipica di alcune funzioni “Anima”; si tratta della dinamica inconscia che Emma Jung[19] definì “possessione da parte dell’Animus”. La Von Franz, distinguendo tra aspetti positivi ed aspetti negativi dell’animus afferma:

L’Animus positivo è la consapevolezza istintiva più profonda della verità interiore, una verità fondamentale che guida la donna spirituale nel suo processo di individuazione, verso la possibilità di diventare sé stessa.
E’ l’opposto dell’Animus negativo che, al contrario, è un grande imbroglione. (…) Il lato maschile nelle donne …presenta i suoi aspetti negativi soltanto quando le donne non sanno rapportarsi ad esso con saggezza. La donna priva di Animus non ha energia né intraprendenza e neppure intelligenza e iniziativa. E’ una creatura molto povera. Tutto ciò di cui dispone sono un grembo per produrre figli e mani per cucinare. La donna priva di Animus non è niente. Da qui si vede come l’Animus sia estremamente positivo. Esso è intelligenza, anelito spirituale. Tutta la spiritualità della donna è legata all’Animus. Così, possiamo affermare che nella donna l’Animus, il suo lato maschile, si estende dal diavolo allo Spirito Santo.’[20] E’ dunque grazie agli aspetti “animus” che la donna può manifestare competenze che vadano oltre le mansioni domestiche. Gli aspetti negativi consisterebbero in realtà in una estremizzazione di quelli positivi che emergerebbero con eccessivo vigore, a detrimento della femminilità, di quelle caratteristiche di sensibilità e ricettività che non vanno soffocate, ma dovrebbero “sposarsi” con le caratteristiche “animus”. Una tendenza animus spesso estremizzata nella psiche femminile è la conoscenza su basi razionali, che nella sua forma distorta diviene incrollabile certezza, anche quando basata su una semplice opinione, che poggia su premesse inconsce ed aprioristiche. ‘Le opinioni dell’Animus hanno assai frequentemente il carattere di solide convinzioni, non facili da scuotere, o di principi apparentemente intangibili’[21]

Riguardo alla forza con cui la donna in preda alla “voce dell’animus” sostiene le proprie opinioni, come fossero certezze, lo stesso Jung afferma che questa è tratta dal fatto che l’animus agisce non come se si trattasse di un uomo nella donna, ma come una pluralità di uomini, una voce corale: ‘L’Animus appare infatti non come una persona, ma come una ‘pluralità’. […] Questa pluralità di ‘giudici’ sentenzianti, una specie di collegio, corrisponde alla personificazione dell’Animus.

La Von Franz, descrivendo la donna posseduta dall’Animus negativo in maniera vivace, affermava che ha un solo e unico obiettivo: quello di inscenare una discussione e di volerla vincere a tutti i costi, senza esclusione di colpi. Ma se l’uomo reagisce, allora la donna si trasforma in una bambina ferita. ‘La donna in preda all’Animus ama fare questo tipo di doppio gioco con l’uomo. Dapprima lo aggredisce brutalmente, con grande violenza e cattiveria verbale. Non appena l’uomo risponde, tuttavia, si trasforma in una dolce bambina spaventata che subisce l’attacco di un bruto, benché sia stata lei la prima ad attaccare. Questa è l’azione di quello che io definisco “Animus-gangster”. Mette davanti a sé la bambina, come uno scudo, di modo che nessuno possa sparare al gangster. La donna dall’Animus-gangster è da un lato una bambina insicura e permalosa, alla quale l’uomo non oserebbe dire ‘bouh!’, dall’altro una bestia brutale, che aggredisce con cattiveria. Si lamenta perché l’uomo non la sta a sentire e nello stesso tempo lo riempie di rimproveri aggressivi. L’uomo vive questa situazione con disagio, perché le lacrime della donna lo fanno sentire in colpa. Si tratta però soltanto di un trucco. La donna mira di proposito a farlo sentire in colpa e l’uomo, che si sente un bruto per aver fatto piangere una donna, ci casca. Si sente a disagio e con le spalle al muro e quindi reagisce in maniera inadeguata’[22]

Nella donna posseduta dall’animus l’elemento maschile spiritualizzante tenta di uscire all’esterno per essere riconosciuto, ma in questa operazione soffoca la femminilità e diventa fallicismo esibito. Le quattro funzioni che caratterizzano l’Animus (forza, come volontà direzionata, azione, parola e pensiero), raggiungono un tale livello di amplificazione da oscurare le qualità femminili dell’anima (contenimento; pazienza, elasticità e flessibilità; ricettività; intuito per le nefaste intenzioni altrui) e rendendo incompleta l’identità della donna, anche se ella si propone al cospetto della vita con un’apparente sicurezza in sé stessa che si tramuta spesso in arroganza. La presunzione, la saccenza, la spigliatezza di questo genere di donna spesso nasconde una profonda insicurezza determinata proprio dal mancato contatto con alcune parti di sé.

Le conseguenze del dominio matriarcale

Ma quali possono essere le conseguenze della prevalenza di carattere elementare del materno nella vita psichica dell’individuo e di questa possessione da parte dell’Animus che potremmo sintetizzare, per brevità, con il termine definitorio di “matriarcato”? Le determinanti di quanto finora descritto sono chiaramente rintracciabili nell’attualità, nel nostro stile genitoriale ed in molte psicopatologie: la configurazione psichica della madre che, con la suadente apparenza di mantenere in uno stato di calore e sicurezza la vita psichica del bambino in effetti la “castra”, unitamente ad una immagine paterna negativa possono generare ‘la confusione di identità e le forme importanti di psicopatologia, come l’uso di sostanze e i disturbi di personalità nei casi più gravi, oppure i problemi scolastici, le difficoltà relazionali fino alla promiscuità, le difficoltà di autonomizzazione, i problemi con l’autorità nei casi più lievi, ma anche più diffusi attualmente nella nostra società’[23].

  1. Ipercuria

Quando si parla di genitorialità ci si riferisce in genere al genitore che, ‘al di là della dimensione biologica, è colui che esercita il parenting, ovvero quell’insieme di comportamenti che attiene alle capacità di proteggere il bambino e sostenerne lo sviluppo. La genitorialità quindi è la capacità di espletare il ruolo di genitore, attraverso l’adozione di un assetto comportamentale finalizzato a nutrire, accudire, proteggere, dare affetto e sostegno, educare, promuovere l’autonomia e l’indipendenza della prole. ‘Esaminando la letteratura esistente, si evince come siano numerosi i fattori di rischio che sembrano accompagnarsi allo sviluppo di patologie di tipo internalizzante [del bambino]: la presenza di turbe depressive o ansiose nei genitori, la mancanza di sostegno affettivo, l’adozione frequente di comportamenti punitivi, il controllo psicologico’[24]. Per essere un buon genitore, è quindi necessario che l’individuo non sia turbato da particolari e profonde patologie psichiche, che sia capace di provare e trasmettere affetto, che sappia modulare punizioni e ricompense, che non eserciti un serrato controllo psicologico sul figlio per incentivare un armonioso processo di individuazione. Come ci dimostra Ada Gobetti (pag. 16 ) per essere una buona madre una donna deve poter vivere anche al di fuori dell’ambito domestico; a differenza di una donna che può esprimere sé stessa anche all’esterno dell’ambito familiare, colei la quale si occupa solo dei figli immette in questo canale la propria emotività senza possibilità di applicarla ad altre vicende, come può fare una donna che è anche impegnata in un posto di lavoro. Ecco che allora, probabilmente, andrà incontro a quella che in psicologia viene definita ipercuria, un eccesso di cura non solo in senso materiale, ma anche e soprattutto in senso psico-emotivo; questa esasperazione di “carattere elementare” (v. pag. 3) ha come correlato un senso di bisogno dei figli ed un bisogno che costoro siano sempre bisognosi, sempre piccoli, altrimenti una madre rischia di perdere l’unica cosa che può fare (prendersi cura di loro) e con essa la propria identità (basata appunto quasi esclusivamente sull’essere madre). Questo rischio di certo non è corso solo dalla donna “casalinga”: è stato infatti analizzato il meccanismo in base al quale in tempi recenti, seppure la donna abbia coscientizzato la propria posizione subalterna rispetto all’uomo ed abbia lottato per ottenere la parità dei diritti, confusa spesso con parità di ruoli, sia stata e sia in parte ancora vittima di quella “mistica della femminilità” che la spinge a trascurare tutto ciò che non sia l’essere regina della casa e madre, esasperando in sé stessa, con conseguenze relazionali e sociali le caratteristiche di care giver, a detrimento di altro.

Berivi e Grassi[25] hanno analizzato le follie del matriarcato, intese come deformazione del ruolo di care-giver impersonato dalla madre che ha ripercussioni a livello personale, familiare e sociale. In campo psicologico evolutivo esistono ormai numerosi studi su questo genere di fenomeno. Gli autori, pur chiarendo che parlare delle follie del matriarcato non significa eludere, o peggio negare, che nel mondo patriarcale le donne spesso diventino vittime, emarginate o relegate ad ambiti di sottomissione, prendono in esame le conseguenze dell’ipercuria, così come la definiscono Patrizi et altri: ‘L’ipercoinvolgimento/protettivo (excessive care/overprotection) è uno stile di parenting intrusivo e ansioso che non permette al bambino di affrontare le sfide naturali della vita e impedisce lo sviluppo delle abilità di gestione delle difficoltà’ (2010). In quest’ottica emerge quel sotterraneo fenomeno di cui si è fatto riferimento dall’inizio di questo lavoro, intessuto delle ‘innumerevoli ferali spire che le madri tessono intorno ai loro figli in forma nascosta, in un mondo, il nostro, che non solo non riconosce la violenza insita in tali comportamenti, non ne coglie la follia, ma che anzi incoraggia in tutte le forme possibili: psicologiche, culturali, sociali, giuridiche, economiche. Ciò contribuisce precisamente a perpetuare uno status quo dove gli uomini possono reagire con violenza, i figli scegliere strade psicopatologiche e le donne diventare sempre più incarnate in un’immagine inevitabilmente vittimistica, che da un lato le rende continuamente preda di odiose rivendicazioni e dall’altra le condanna ad una drammatica solitudine esistenziale, a fronte però di un vantaggio secondario: essere sempre figlie bisognose di aiuto.’

Dunque se il prendersi cura di qualcuno, tipico di una madre, include una serie di attività moralmente inattaccabili, quando è agìto nell’ottica del bisogno assume caratteristiche soffocanti. Nel Nooddings (1984) afferma che l’etica della cura non esige reciprocità, poiché il prendersi cura dell’altro prevede il disinteresse, si attua senza ricevere nulla in cambio e implica fare posto dentro di sé all’altro. Ma la cura dell’altro può essere esercitata in funzione di un narcisismo autoreferenziale, rispondendo ad un personale bisogno di autoaffermazione che va oltre il prendersi cura, il donarsi all’altro e che conferisce senso alla propria esistenza: “io esisto perché sono il centro del tuo mondo”, oppure, “poiché mi prendo cura di te, mi aspetto che tu non mi lascerai mai”. In questo caso, l’ipercura non è altro che la passivizzazione dell’altro, è minare la sua autonomia e offrire insieme la ricompensa che trattiene il figlio, che può essere materiale (ad esempio regali molto costosi, del tutto immeritati) o l’appagamento emotivo derivante dal fatto di essere sempre “servito” da qualcun altro e di sentirsi simultaneamente necessario per la vita dell’altro. In quest’ottica perfino il naturale catalizzatore della sessualità, percepito di norma in adolescenza, a latenza terminata, non appare sufficiente per sganciarsi da quel rapporto; magari si svilupperà, ma avrà solo carattere predatorio e non di scambio. Il preoccupante aumento dei fenomeni di molestie e violenze compiute ai danni delle donne hanno probabilmente anche questa matrice inconscia: il non dare valore all’altra, se non come “cosa”. Una “cosa” può essere colpita, danneggiata, anche distrutta e annullata, visto che si tratta di un oggetto; il processo messo in atto a livello intrapsichico è chiamato “disumanizzazione”. L’unica vera “persona” è la madre, della quale va conservata un’immagine interiore immacolata; l’aspetto del materno percepito come “terribile” in quanto imprigionante va tenuto lontano, relegato nell’inconscio. L’effetto di questa rimozione è, come afferma Bergeret[26], una depressione, che è il risultato dell’azione di una imago parentale inconscia oscura e negativa ed ha come esito esistenziale un vivere senza mèta; ciò che Galimberti[27] definisce “nichilismo”: una mancanza di prospettive, di pianificazione del futuro, di inconcludenza che implica anche un ripiegamento nel passato e nella dorata infanzia.

A livello sociale, la conseguenza di questo genere di configurazione interna è il passaggio dalla famiglia basata sulla regola a quella odierna basata sull’affettività, effettuato proprio dalle nostre generazioni, che può avere come contraltare una eccessiva enfasi sui bisogni personali, sulla estremizzazione delle libertà individuali, tipiche della logica endogamica. Ma l’assenza di regole e confini precisi, l’indifferenziazione di ruoli e di livelli generazionali, non equivale di fatto ad abbattere le barriere naturali ai desideri incestuosi dei figli così come dei genitori? Non si rischia un innaturale prolungamento della seduzione narcisistica? Racamier a questo proposito di “incestuale”.

     2. Seduzioni

L’autore descrive un meccanismo di seduzione reciproca che si instaura subito dopo la nascita, fisiologico e necessario al generarsi di un’unione armoniosa tra madre e bambino. ‘All’unità corporea prenatale subentra un’altra sorta di unisono: la seduzione narcisistica ne costituirà il motore e il cemento. La madre e il bambino si sedurranno…come se entrambi dovessero far parte l’uno dell’altro… Il neonato deve sedurre sua madre, delusa dal fatto che lui non sia così meraviglioso come lo era nei suoi sogni a occhi aperti e nei suoi fantasmi di futura madre… la madre, deve sedurre il neonato, deluso dalla sua nascita per il fatto che deve conquistarsi l’aria e il cibo’[28] L’autore continua poi spiegando che il declino della seduzione narcisistica si verifica per due generi di forze che lavorano al suo dissolvimento:

  • Forze di crescita, che spingono in modo naturale l’individuo l’autonomia e la differenziazione;
  • Forze sessuali, che spingono l’individuo a distaccarsi dall’alveo narcisistico del rapporto chiuso, incapsulato nell’aura materna e lo portano verso il mondo.

Le due forze entrano in concorrenza con la seduzione narcisistica che è autoreferenziale ed include solo la madre nell’interesse del bambino. Gli esiti di questo declino somigliano ai postumi della piena di un fiume e possono essere tanto positivi quanto nefasti. Nel primo caso, come il Nilo, lasceranno sul terreno un limo, una sostanza fertile che arricchirà la personalità del soggetto, ravvisabile in una competenza relazionale e in una generica “idea dell’Io”. Questa caratteristica rende l’individuo capace di stare al mondo, di riconoscere la realtà e anche di “stare con” qualcuno, tramite l’empatia ed il reciproco riconoscimento. Nel secondo caso, invece, l’esito sarà infausto perché la relazione narcisistica tenderà a non cessare mai, perché la madre non sopporterà l’idea di infrangere questa diade magica e incompatibile con qualsiasi intromissione (inclusa quella paterna) e resterà avvinghiata al figlio trattenendolo in questa gabbia dorata. Lo farà forzando la naturalità della seduzione narcisistica, il suo servire ad impostare relazioni future, quindi rendendo asimmetrica la relazione e manipolando il figlio affinché non si ribelli. Lo farà seguendo la propria necessità di conferme narcisistiche usando il figlio come specchio che le rinvii sempre un’immagine di sé stessa lusinghiera e rassicurante. Lo userà come suo complemento, come garanzia di identità, come prova della validità della propria esistenza. In questo scenario, colorito, ma veritiero, il figlio perderà l’autonomia, oppure non la conquisterà mai. Alla base di questa forma distorta[29] del naturale, benefico narcisismo primario ristagnano tre dogmi:

Insieme ci bastiamo e non abbiamo bisogno di nessuno

Insieme e uniti trionferemo su tutto

Se mi lasci io muoio

C’è da chiedersi che destino abbia, nella reiterazione forzata della seduzione narcisistica, l’erompere naturale delle pulsioni sessuali; Secondo Racamier, sfocia nell’incesto. Non è necessario che l’incesto propriamente detto, quell’evento violento, traumatico e squalificante, abbia veramente luogo. In molti casi, anzi, ciò che si verifica nella coppia madre-figlio caratterizzata da narcisismo secondario materno, è un comportamento incestuale in cui il carnefice e la vittima si scambiano di posto in una conflittualità che in realtà è una schermaglia amorosa; la relazione è simmetrica poiché è abolita la barriera generazionale e si ritrovano configurazioni familiari “amichevoli” in cui il figlio, ad esempio, si comporta come un marito, la madre come una figlia sempre bisognosa d’aiuto, fratello e sorella come amanti. Alla base c’è la stessa configurazione tipica dell’incesto vero e proprio: l’incesto è posto a servizio di una seduzione narcisistica di per sé abusiva; l’abuso sessuale subentra, è il prolungamento dell’abuso narcisistico, lo completa. Anche l’incestuale ha questa caratteristica e, sebbene manchi del tratto d’irruenza violenta nel corpo dell’altro, a livello psichico agisce nella stessa maniera. Un tratto fondamentale dell’incestuale è senz’altro l’adulazione: nessun figlio o figlia resiste all’idea di essere necessario non per la felicità, ma per la vita stessa del genitore. Altra caratteristica di base è l’esclusività: l’incestuale è un lavoro di coppia; l’altro (il padre nel caso di madre e figlio) non esiste e se c’è viene relegato ai margini della vita familiare. A questo proposito appare utile ricordare quanto analizzato da Grassi e Berivi: ‘Se il padre, attivamente da parte della madre e/o per propria scelta, è marginalizzato, la barriera incestuosa è di fatto rimossa per lasciare il campo alla fantasia masturbatoria centrale ben descritta dai coniugi Laufer (1984), facile da immaginare proprio nelle realtà in cui le madri sempre più spesso rimangono effettivamente sole con i figli, come nelle famiglie monoparentali.’[30]

     3. Violenza e dipendenza

Analizzando le possibilità relazionali di un figlio oggetto di ipercura ci si chiede come possa essere la donna al di fuori della famiglia, scelta dopo la pre-adolescenza all’erompere della sessualità. Probabilmente costei risulterà per questo genere di figlio sempre deludente, perché non sarà mai sollecita, affettuosa ed appagante come la madre; e lo sarà ancora di più quando e se deciderà di lasciare il compagno, allora “meriterà” anche di morire, un po’ per il grave tradimento messo in atto (una madre non lo avrebbe mai lasciato), un po’ perché è un oggetto, una cosa colpevole di aver deluso le sue aspettative sotto ogni aspetto. Di questa situazione interiore rientrano infatti, tra le conseguenze più nefaste, le personalità violente (anche con varianti di perversione che approdano al comportamento del sex-offender). Questa ipotesi appare in linea con le formulazioni di A. M. Cooper, secondo cui ‘il nucleo traumatico di molte, se non di tutte, le perversioni è l’esperienza di spaventosa passività nei confronti della madre preedipica, percepita come pericolosamente maligna, nociva e onnipotente’[31]. Lo sviluppo di una perversione, basata sul principio di disumanizzazione del corpo, si configurerebbe come una sorta di riparazione a questa offesa. La disumanizzazione è una strategia contro la paura delle qualità umane, protegge dal senso di vulnerabilità che consegue al sentimento dell’amore, dall’imprevedibilità umana e dal senso di impotenza che si scatena nel confronto con altri esseri umani. Questo meccanismo potrebbe essere alla base del concetto di “anestesia”, elaborato da F. Mele[32]. Secondo l’autore tutti abbiamo almeno due personalità: una diurna ed una notturna, caratterizzata da tutti quegli aspetti che durante il giorno, al lavoro ed in famiglia, non si possono rivelare. L’individuo, quando svela questo aspetto, è capace di fare tutto ciò che gli dà l’illusione di riscattare le frustrazioni diurne; il Sé grandioso, così, trionfa in una competizione spesso agevolata dall’assunzione di qualche sostanza stupefacente ed il soggetto arriva a picchiare, stuprare e a volte anche uccidere senza che nessuno, prima, abbia mai nemmeno immaginato che potesse commettere atti del genere. Il soggetto è capace di cimentarsi in un’azione sadica efferata grazie ad una sorta di “anestesia morale”, senza la quale mai potrebbe commetterla. Il giorno dopo, sui giornali, leggeremo che tutti, in particolare i familiari, giurano che quella era “una persona per bene”. Se il delitto è commesso in gruppo, poi, l’anestesia è resa ancor più potente dalla dispersione di responsabilità e la vittima diviene il nemico. Lo scopo sotteso a queste azioni è proprio quello di sfidare, tramite una potenza fisica inaudita, il nemico interno, quella madre terribile accompagnata da una autosvalutazione che si intende aggirare o vincere tramite l’acting-out violento. La vittima è lo schermo bianco su cui si proietta l’immagine del nemico; quindi non viene vista nella sua realtà concreta, non viene nemmeno riconosciuta come persona, viene annullata nell’urgenza di dare sfogo al carico di rabbia. Nella mente del sadico non c’è un’assenza di coscienza morale a cui segue il crimine, al contrario la coscienza esiste, ma viene addormentata proprio allo scopo di commettere quell’atto che fa sfogare il soggetto liberando una ingente quota di frustrazione ed aggressività accumulata. La relazione è aggirata: secondo S. Bach[33], sfruttare una persona è molto più facile che entrarci in relazione, poiché mentre una relazione richiede dialogo e scambio, che sono meccanismi assai sofisticati che richiedono uno sforzo emotivo e cognitivo, lo sfruttamento è unilaterale e non richiede altro che forza, intimidazione o astuzia. Naturalmente, in questo quadro, l’angoscia di castrazione gioca un ruolo rilevante, configurandosi come esito naturale dell’azione di una imago materna malvagia ed onnipotente in quanto imprigionante nei confronti del figlio. Le donne sperimentano questa angoscia con minore intensità e questo forse in parte spiega la ragione per cui esistono pochissime “sex-offenders”. Il fatto che le donne compaiano in numero inferiore nelle statistiche non vuol dire, tuttavia, che costoro non siano soggette a perversione, ma semplicemente che il loro modo di esperire le stesse tematiche psicologiche ed agirle è differente, più “sottile”; sempre secondo Cooper il gioco del cucù effettuato dalle donne con le scollature è un’opportunità di mettere in atto una versione femminile dell’uomo con l’impermeabile.

Per quanto concerne, nel dettaglio, il ruolo del padre che, come analizzato in precedenza, dovrebbe fungere da forza contro-gravitazionale, nella economia psichica del soggetto. Inoltre per il maschio rappresenta un importante polo di emulazione (anche inconscia) poiché, è utile ricordarlo, diventiamo uomini e donne identificandoci con il genitore dello stesso sesso. Nel caso in cui il padre reale sia estremamente negativo e violento è più probabile che costui costelli, nella vita psichica del figlio, un’istanza interiore brutale, anche a causa della identificazione necessaria tra figlio e padre, come descritto da Giulini e Xella (2011). Alcuni adulti hanno alle spalle una storia caratterizzata da un’infanzia difficile in cui almeno un genitore, spesso quello dello stesso sesso, rende il figlio particolarmente insicuro e fragile con insulti, beffe e percosse. Il figlio, da adulto, inevitabilmente continua a portarsi dentro l’immagine di un padre svalutante; questo può dare luogo a diversi esiti, dal più “leggero”: una insicurezza di base più o meno costante e generalizzata, con ricerca continua di prove del proprio valore; al più “pesante”: per dimostrare a sé stesso di valere il soggetto deve scegliere partners piccoli, inoffensivi da poter sopraffare e dominare, come documentato da Fogel e Myers (1994).

Conclusioni

In questa breve disamina storica sulla condizione femminile, dalla quale si evince che dopo quell’evento storico-sociale sfaccettato chiamato “femminismo” la donna è riuscita ad emanciparsi, conservando in sé, tuttavia, i precetti matriarcali di cui era tradizionalmente portatrice, appaiono tracciate alcune tematiche ricorrenti alla base del funzionamento psichico e sociale dell’umanità dai suoi albori ad oggi.

Eminenti studiosi, citati lungo questo lavoro, nell’ambito della ricerca storica, antropologica, filosofica e psicologica si sono imbattuti in quelle che appaiono come le determinanti di alcune questioni ancora irrisolte inerenti queste tematiche. Questo articolo ha come obiettivo quello di offrire un modesto contributo al difficile intento di comporre un’articolata mappa concettuale composta di riflessioni, ipotesi ed intuizioni brillanti, utile alla comprensione di alcuni meccanismi psicopatologici.

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  1. De Conciliis E. (2012)
  2. Berivi S., Grassi A. (2018)
  3. Ivi pag. 11
  4. Perone (2014)
  5. In Carli R. (1987)
  6. V. pag. 35
  7. Tale configurazione è ancora di fatto ravvisabile in alcune culture, come ad esempionell’etnia Rom
  8. Lo gnosticismo è stato un movimento filosofico, religioso ed esoterico, a carattere iniziatico, molto articolato e complesso, presente nel mondo ellenistico greco-romano, la cui massima diffusione si ebbe tra il II e il IV secolo d.C. Il termine gnosticismo deriva dalla parola greca gnósis (γνῶσις), cioè “conoscenza”, che era l’obiettivo che esso si poneva.
  9. Gran parte delle religioni cristiano-gnostiche teorizzavano che da Dio Primo Eone fossero state generate più coppie di eoni composte sempre da un eone maschile e uno femminile. Dio e gli eoni nel loro complesso formavano il Pleroma.
  10. Friedan B (1972)
  11. I sintomi isterici furono descritti da Ippocrate…come segni di fragilità femminile.Nel XIX secolo J. Charcot, le cui pazienti curate alla Salpetrière di Parigi sono passate

    alla storia, interpretò l’isteria come un’entità nosologica, distinguendo le manifestazioni episodiche da quelle a carattere permanente e, sia pure sulla base della errata concezione dell’affinità dell’isteria con gli stati ipnotici, ne ribadì la pertinenza alla neuropatologia. I suoi studi attirarono l’attenzione di S. Freud, il quale fece nascere la psicoanalisi proprio su questo fondamento.

  12. Freud S. (1888)
  13. Ivi pag.189
  14. Friedan B. (1972)
  15. Marchesini Gobetti A. (1951) p.3
  16. Leuzzi M.C. (2014) pag. 25, nota 6
  17. Jung C.G. (1928)
  18. Von Franz M. L. (1988) pag.146
  19. Jung E. (1934)
  20. Von Franz M. L. (1988) pag. 188
  21. Jung E. (1934), pag. 205
  22. Von Franz M.L. pp.164-5
  23. Berivi S. Grassi A. (2018)
  24. Ivi pag. 63
  25. Berivi S. Grassi A. (2018).
  26. Cit. in Coslin P.G. (2002).
  27. Galimberti U. (2007)
  28. Racamier P.C. (1995) pag. 28
  29. Freud e gli autori post-freudiani si riferiscono a questa forma distorta di narcisismo denominandolo “narcisismo secondario”
  30. Grassi A., Berivi S. (2010) pag. 7
  31. Cooper A. M. in Fogel G.I., Myers W.A. (1994) pag. 23
  32. Mele (2010)
  33. Bach S. in Fogel G.I., Myers W.A. ( 1994)