Grassi A., Berivi S., Casamassima S., Russello C.
Abstract: Oggi è possibile osservare come il concetto di algoritmo abbia ricoperto una posizione dominante sia nelle scienze esatte sia nelle scienze sociali, psicologia, sociologia, sia nella cultura istituzionale, aziende pubbliche e private. L’algoritmo può essere concepito come un concetto affine alla natura della psiche proprio perché relativizza la Logica ad uno degli strumenti psichici possibili, che deve convivere con funzioni mentali non-logiche. Gli autori ipotizzano questa analogia tra il concetto di algoritmo e quello di complesso di Jung perché il Complesso è un concetto della teoria junghiana sulla psiche, tant’è che spesso la teoria di numero viene denominata “teoria psichica di complessi”: paterno, materno, fraterno, filiale, eccetera. Alla luce di tale premessa, gli autori propongono un tipo di Psicoterapia Dinamica Breve ad orientamento Psicologico Analitico Comunicativo. Prima illustrano un preliminare riferimento all’unità operativa e di ricerca costituito dal CCRT di Luborsky, così come elaborato da H. Book nella sua teorizzazione della Psicoterapia Dinamica breve. Successivamente focalizzano l’attenzione su un concetto di marca originale junghiana, il Complesso, e ne evidenziano le analogie e le differenze con il CCRT di Luborsky. In particolare, sottolineano la differenza tra i due concetti costituita dall’organizzazione dimensionale del Complesso. Infine, documentano la loro proposta con la descrizione di un caso clinico di Complesso fraterno, utilizzando come unità operativa clinica il derivato, nella accezione di R. Langs.
Keywords: Psicoterapia Dinamica Breve, CCRT, Complesso, Derivato
Preambolo
Il concetto di algoritmo è attualmente dominante sia nelle scienze cosiddette esatte sia nelle scienze sociali, psicologia, sociologia, sia nella cultura istituzionale, sia in aziende pubbliche e private. La sua connotazione di metodo ne fa oggi il padrone in tutti i campi del sapere e dell’agire umano. L’algoritmo è una sequenza di azioni definibile anche come procedura. Può essere utilizzato per risolvere qualsiasi problema che non sia necessariamente formalizzabile nel linguaggio matematico.
Il concetto è oggi dominante soprattutto nel campo di studi dedicato all’intelligenza artificiale, ove iniziano a comparire, anche già operativi, algoritmi delle emozioni, cioè della dimensione squisitamente umana.
A differenza dell’algoritmo il concetto di programma rappresenta la versione specifica dell’algoritmo nel linguaggio della programmazione, che si presenta, però, con regole grammaticali e sintattiche precise e si basa esclusivamente sulla logica. La sostanza psichica propone la logica non come l’unico approccio possibile alla conoscenza, perchè prevede anche nessi, nella visione della realtà, come ad esempio i messi analogici, comparativi e/o contemplativi. L’algoritmo può essere concepito come un concetto affine alla natura della psiche proprio perché relativizza la Logica ad uno degli strumenti psichici possibili, che deve convivere con funzioni mentali non-logiche, ma analogiche.
Ipotizziamo questa affinità di significato tra il concetto di algoritmo e quello di complesso di Jung perché il Complesso è un concetto operativo della teoria junghiana sulla psiche, tant’è che spesso la teoria di numero viene denominata “teoria psichica di complessi”: paterno, materno, fraterno, filiale, eccetera.
Il Complesso è frutto dell’impatto tra alcuni archetipi intrapsichici, già in relazione tra loro, e l’esperienza vissuta nelle relazioni umane. Il Complesso è, per definizione dello stesso Jung, un insieme di immagini, cioè rappresentazioni interiori, unite da una forte tonalità affettiva centrale. La radice genetico-archetipica del Complesso ci dice che, al pari dell’archetipo, esso è un pattern of behaviour, cioè un modello di sequenze di azioni. Questa sequenza da un lato assimila il Complesso alla medesima natura dell’algoritmo, cioè quella di sequenza di azioni. Però essendo il Complesso rappresentato anche da immagini in relazione tra loro, esso finisce per possedere una dimensionalità ed una categorialità più corpose dell’algoritmo. L’algoritmo, quello non programmabile nel linguaggio matematico, per essere rappresentato, si avvale anch’esso delle immagini: vedi come esempio la flow chart, in cui concetti logici vengono inseriti e rappresentati in blocchi. I blocchi, diversificati nella forma, sono immagini. Terzo, ma non ultimo elemento di affinità tra i due concetti, Complesso ed Algoritmo, è la forte tonalità affettiva centrale del primo che coincide con il tema comunicativo – interattivo dell’algoritmo. Infatti questo tema, come scrive la O ‘ Neil (2017),può essere soggettivo e non oggettivo, non solo, ma può essere usato, per esempio, come moltiplicatore di pregiudizi dei loro creatori. Anche il Complesso è fatto di credenze e di pregiudizi rappresentati da immagini, che sono legate da questa forte tonalità affettiva centrale.
Il Complesso, per sua natura, ha una funzione fisiologica nello sviluppo di una personalità sana. Ad esempio un Complesso paterno consente ai figli l’esperienza del paterno e della funzione paterna. È invece la sua psicopatologia che ne determina un uso distorto: diventa, anch’esso, il Complesso, un moltiplicatore di pregiudizi di chi ne è vittima. Ovviamente e analogamente gli algoritmi hanno una funzione fisiologica nel tessuto bio-psicologico dell’essere umano, su cui non occorre soffermarci. Accertata, quindi, alla luce di queste riflessioni, la possibilità di individuare nel Complesso una sua natura algoritmica, proprio in vista di una teorizzazione della psicoterapia dinamica breve, si può assumere alla base di quest’ultima, laddove orientata analiticamente e comunicativamente, la seguente formulazione: “Psicoterapia psicodinamica breve centrata sul Complesso. Teoria e metodo dell’approccio psicologico analitico ad orientamento comunicativo.”
Il Complesso è per sua natura e definizione un sistema complesso di approccio alla realtà, così come può esserlo l’Algoritmo; cioè, il sistema complesso in cui sono inserite le variabili reali con la loro attitudine al cambiamento, all’editabilità, e alla notevole flessibilità. Il Complesso, analogamente all’algoritmo, può essere rappresentato da una Flow Chart e la sua connotazione patologica si verifica quando la forte tonalità affettiva centrale da amore, si trasforma in libido aggressiva, odio.
Allora anche la sua rappresentazione grafica subisce delle lesioni, si presenta come una flow chart in cui sono evidenti dei bags che bisogna rimettere a posto. Ci riserviamo di proporre degli approfondimenti di queste riflessioni in un successivo lavoro, in quanto il tema di questo scritto è costituito soltanto da uno studio sulla natura e sulla cura del Complesso nella sua accezione psicopatologica tramite la psicoterapia psicodinamica breve.
Introduzione
La vita attuale pone agli individui problemi nuovi che investono la nostra esistenza quotidiana in modo inaspettato. Il ritmo vertiginoso dei cambiamenti sociali, determinati dai progressi delle discipline tecnologiche, qualifica la nostra epoca come l’era dell’informatica e del tempo reale. Questa ha simultaneamente modificato lo stato mentale dell’intera coscienza individuale e collettiva così come dell’inconscio universale. Ad esempio, la coscienza è ormai sotto l’egida del pensiero unico identificato come l’“Interprete” dalle scienze neurocognitive (Gazzanica 2007) e l’inconscio subisce una sua frammentazione parcellizzata che pone seri e gravi interrogativi sulla concezione del mondo, contestuale alla disgregazione di capisaldi etici (Marrquard 1896; Maffesoli 1990). La loro precedente, presenza condivisa e valorizzata, assicurava nel mondo occidentale sia la tenuta dell’integrità del tessuto sociale sia l’assetto della vita individuale tramite regole chiare e ben definite. Lo psicoanalista statunitense Robert Langs parlava di “Regole di Base della Vita”, ossia regole “che hanno ottenuto una costante convalida per derivati[1]da parte dei pazienti in psicoterapia e in psicoanalisi” (Langs 1973-74; 1988). Piaget teorizzava che il bambino impara con i genitori le regole etiche e, poi, con i coetanei, nel gioco, l’assoluta necessità di un sistema di regole condivise che rende possibile l’interazione con gli altri bambini, superando egocentrismo e autorefenzialità (Piaget 1964). Kohlberg, in linea con Piaget, parlava vieppiù di sviluppo morale che rende la persona morale matura in grado di assumere una prospettiva imparziale e distaccata e di ragionare in senso kantiano su principi astratti e universali (Kohlberg 1982). Concetti che oggi appaiono sempre più sfocati.
Questo depotenziamento dell’importanza del sistema etico si è verificato, però, anche in ambito psicodinamico ed ora va di pari passo con l’abolizione della ricerca metafisica in campo filosofico e del divino nel campo religioso-teologico, a favore di una antropologizzazione di concetti metafisici e con una correlata sintonica visione non più trascendente, ma immanente di un dio frammentato in tanti dei dai 1000 volti (Campbell 1949) ciascuno con una sua identità, un suo metodo conoscitivo ed un suo atteggiamento etico. Ne è conseguita una frammentazione del concetto di verità in singole credenze individuali che caratterizzano le differenti vedute omologandole tutte a “beni relativi”, ma intese come beni solo perché in possesso di una loro esistenza sul piano antropologico sono una scotomizzazione svalutante del semplice buonsenso che riuscirebbe a distinguere in molti casi, anche se non tutti, quello che è un bene da quello che è un male. Anche a quest’ultimo oggi si dà valore positivo, invece, solo perché esiste. Basti guardare il proliferare di protagonisti negativi che imperversa nella letteratura e nella filmografia più in voga nelle giovani generazioni che hanno sostituito la figura dell’eroe propria delle generazioni precedenti.
In questa congerie di fenomeni psichici e teorizzazioni, la teoria psicodinamica corre il rischio di lasciare che il concetto di guarigione abbandoni, come in una resa, il campo a quello più rassicurante di miglioramento, inteso come sollievo del sintomo socialmente disadattivo e/o individualmente opprimente e a limitati, ma significativi, cambiamenti nel carattere (Book 1998). A nostro modo di vedere, di fronte a un quadro psicologico siffatto l’ottica psicodinamica della mente se da un lato necessita di un aggiornamento che, in sintonia con i ritmi velocizzati della frenetica vita attuale, miri alla soluzione più rapida di sintomi disadattivi, dall’altro è indispensabile e caratterizzante che mantenga come suo specifico tratto la soluzione del problema etico correlato a questi sintomi. Il conflitto etico è slatentizzato da una teoria motivazionale dell’universo psichico, cioè precisamente da una teoria psicodinamica.
Da molti anni, soprattutto in ambito istituzionale, con il nostro Gruppo abbiamo quindi sperimentato forme di psicoterapia psicodinamica breve per rispondere a quanto sopra accennato e per rendere più agile il lavoro psicodinamico, adattandolo alle logiche dei servizi territoriali sanitari che non possono giustificare psicoterapia troppo lunghe e, di conseguenza, troppo costose in termini di efficacia/efficienza.
Il metodo che noi utilizziamo e che in questa sede proponiamo, il quale caratterizza e denomina la nostra Scuola di formazione, parte da una prospettiva culturale profondamente junghiana e si avvale, soprattutto nell’approccio clinico, dell’indispensabile contributo di Langs per gli aspetti comunicativi, interpretativi e di setting. Esporremo più avanti alcuni aspetti salienti del nostro metodo anche con un caso clinico.
La Psicoterapia psicodinamica breve. Da Book alla psicoterapia psicodinamica breve centrata sul concetto di Complesso di Carl Gustav Jung
Ci sembra importante definire che la psicoterapia psicodinamica breve rappresenta anche una risposta politica ad una varietà di forze scientifiche ed economiche che in questi ultimi decenni ha strenuamente e deliberatamente emarginato le terapie psicoanalitiche a vantaggio di altre forme più aderenti ai radicati principi scientisti di questo nuovo secolo (Gunderson & Gabbard 1999).
Esula dagli obiettivi di questo breve scritto enucleare i metodi e le strategie con i quali questa marginalizzazione è oramai compiuta, non solo in Italia. Per questo basti vedere la letteratura che è stata pubblicata piuttosto recentemente (Vocks et al. 2010; Paris2008; Patterson 2008; Solomon et al. 2008; Deacon & Abramowitz 2005; Fournier et al. 2005; Cummings et al. 2003). Tuttavia, vorremmo solo brevemente accennare al fatto che il documento prodotto nell’ambito della Consensus Conference (2022) patrocinata dall’Istituto Superiore di Sanità, che si è svolta in Italia nel 2022 sulle terapie psicologiche per ansia e depressione, ha sancito formalmente il valore della psicoterapia nel Sistema Sanitario Nazionale Italiano, in linea con il programma inglese Improving Access Psychological Therapies IAPT (Clark 2018). Questo valore non è visto solo in termini clinici in senso stretto, quanto anche in termini economici, in relazione proprio al rapporto efficienza/efficacia con il correlato risparmio della spesa pubblica. La Consensus Conference individua nella psicoterapia psicodinamica breve, unitamente alla terapia cognitiva e comportamentale (CBT) e alla Terapia interpersonale (IPT), le uniche esclusive psicoterapie basate sui più alti livelli di efficacia per i “Disturbi Mentali Comuni” DCM o “Disturbi Emotivi Comuni” DEC. In altri termini, la psicoterapia psicodinamica breve entra a pieno titolo fra le psicoterapie EST – Empirically Supported Treatments – differentemente dalla terapia psicodinamica che, seppure validata (Shedler 2010), è praticamente ormai considerata obsoleta.
Esistono molte forme di Psicoterapia Psicodinamica Breve. Negli anni 50 e 60 il gruppo della Tavistock, tra cui Balint, Malan, Mann e Goldmann e, a seguire, Davanloo, iniziarono studi sistematici sulla psicoterapia a tempo determinato giungendo alla conclusione che con essa si poteva condurre il paziente ad ottimi risultati. In particolare, Davanloo, proseguendo il lavoro di Malan, ha impostato un metodo chiamato IS-TDP – Intensive Short-Term Dynamic Psychotherapy – giungendo ad ottimi risultati (Balint et al. 1972; Malan & Osimo 1992; Mann 1973; Goldman et al. 2006; Davanloo 2001). Più recentemente, si aggiungono Sifneos (1972) e la Terapia dinamica interpersonale breve di Lemma, Target e Fonagy, che nelle intenzioni degli autori è stata elaborata “per ottimizzare l’integrazione pratica di un approccio psicodinamico con il focus sui sintomi degli attuali committenti e fruitori dei servizi di terapia psicologica, senza compromettere la sua tradizione teorica e il suo meccanismo unico di azione terapeutica” (Lemma et al. 2011).
Dobbiamo a tutti questi studi il perfezionamento delle tecniche di psicoterapia dinamica breve che si integrano attualmente con gli interventi di psicoterapia analitica a lungo termine.
La psicoterapia psicodinamica breve, a nostro avviso, ha trovato in Book (1998) un attento studioso che maggiormente, rispetto agli altri autori sopra citati, si avvicina al nostro metodo dinamico che più avanti descriveremo. Book si è ispirato ad un altro autore, James Mann (1973), per definire la durata del trattamento in 16 sedute, concordata all’inizio con il paziente, e ha individuato nel CCRT di Luborsky (Luborsky 1984; Luborsky & Christoph 1990)il metodo di approccio clinico.
Il CCRT vede nel sintomo l’espressione di conflitti intra-psichici, originati dalle rappresentazioni strutturate durante l’infanzia e conservate per l’intera esistenza. Normalmente e generalmente l’adattamento dell’individuo cambia in funzione delle richieste sociali tramite la flessibilità delle rappresentazioni interne: questo è un assunto di base della teoria del CCRT. Tali rappresentazioni, secondo l’autore, diventano ad un certo punto rigide e incongrue, dando luogo allo sviluppo di un conflitto, anche se in realtà lo psicologo statunitense non dà spiegazione dei motivi per cui si verifica questo irrigidimento. Il CCRT per Luborsky forma “un tema relazionale conflittuale centrale”, cioè un modello di rapporti che è pronto ad essere messo in atto automaticamente ed inconsapevolmente, inadeguato alle esigenze del momento.
Ci sembra importante evidenziare, che l’obiettivo e lo scopo della psicoterapia psicodinamica breve, orientata al CCRT proposta da Book, è la soddisfazione del desiderio senza la necessità del presentarsi del sintomo. L’uso del CCRT, secondo l’autore, determina un impatto particolarmente significativo nel campo delle applicazioni della clinica da un lato soddisfacendo i criteri di una EBM (Evidence Based Medicine), e dall’altro esso dà la possibilità, nel campo della ricerca in psicoterapia, di “operazionalizzare” le variabili psichiche messe in gioco, cioè “le scelte”. Book sottolinea in proposito che il metodo non è teso al cambiamento dell’aspetto strutturale dello schema relazionale del CCRT, ma solo dei contenuti da esso realizzati, ad esempio il tono affettivo della rappresentazione. Il focus della terapia è centrato sull’individuazione del CCRT collegato ai sintomi. L’ascolto e l’attenta registrazione di episodi relazionali discreti, cioè di natura categoriale, consentono al terapeuta di elaborare il tema relazionale ricorrente. Il metodo del CCRT mette insieme i fattori terapeutici comuni, trasversali ai diversi orientamenti clinici e di conseguenza consente di stimolare i contenuti trasformativi specifici. Da ciò scaturisce, per questo metodo, la possibilità di valutare le modifiche progressive della cura, nonché l’opportunità di individuare quello che funziona meglio nella relazione terapeutica. È così accertabile il rapporto costi/benefici e diventa realizzabile un paradigma clinico attuale fondato sia sull’efficacia sia sull’efficienza dei trattamenti psicoterapeutici. Secondo Book il concetto di CCRT è dunque di dimensioni più vaste e comprensive del modello cognitivista, perché è la componente del desiderio che guida l’intera sequenza associativa e/o interattiva, il pattern of behaviour relazionale, ed in questo risiede la differenza tra approccio schematico-cognitivo e quello supportivo-espressivo psicodinamico (CCRT) (Book 1998).
Proseguendo lungo questa linea di pensiero noi proponiamo, in una prospettiva junghiana di orientamento comunicativo (Grassi 1999; 2012), un tipo di psicoterapia psicodinamica breve ad orientamento psicologico-analitico-comunicativo, in quanto, come riteniamo limitante e riduttiva la concezione analitica freudiana dell’individuo solo pulsionale, così riteniamo amplificabile il CCRT di Luborsky, le cui componenti essenziali sono i desideri e le aspettative del soggetto, le risposte attuate o presunte dell’oggetto e le reazioni del soggetto alla risposta dell’oggetto. Ci si muove quindi, con il CCRT, sempre in un’ottica pulsionale, anche l’elemento nuovo è che essa è ben contenuta all’interno di schemi relazionali.
Jung ha teorizzato la libido non solo come pulsionale, ma in senso più ampio, e il Complesso sin dall’anno 1915, a seguito degli esperimenti e delle correlate scoperte nell’ambito delle associazioni verbali utilizzate in modo sperimentale (Jung 1934). Ponendo a confronto il Complesso e il CCRT riteniamo che quest’ultimo rappresenti solo un sottosistema del Complesso.
Partiamo da cos’è il Complesso. Jung nel 1934 annunciava il concetto di Complesso in un articolo (Jung 1934). Riassumendo, l’autore scriveva che:
- il metodo dell’analisi del Complesso riveste un’importanza conoscitiva maggiore che non nel suo oggetto nella psicologia moderna;
- il principio di questo modo di procedere è – cum grano salis – quello proprio in generale delle scienze naturali;
- tutto o quasi dipende dalla premessa metodologica e il risultato è imposto principalmente da questa premessa. L’oggetto di studio, in una situazione sperimentale, non si comporta come si comporterebbe, in quanto realtà autonoma, in una situazione naturale senza interferenze;
- una certa disposizione sperimentale non coglie con immediatezza il processo psichico, ma tra questo processo e l’esperimento si insinua una certa condizione psichica che potremmo definire “situazione sperimentale”. Questa “situazione” può in certi casi mettere in forse tutto l’esperimento, in quanto assimila a sé l’organizzazione sperimentale e perfino lo scopo che è alla base dell’esperimento. Con il nome di “assimilazione” Jung intende un atteggiamento del ricercatore che fraintende l’esperimento stesso, per “una tendenza inizialmente invincibile a supporre che esso sia un “test” sull’intelligenza o un tentativo di gettare uno sguardo indiscreto dietro le quinte” (Jung 1934).
Jung richiama i suoi esperimenti sulle associazioni, tesi a stabilire le velocità medie e le qualità della reazione a parole stimolo, per denunciare come il metodo venga inficiato dal comportamento automatico della psiche, vale a dire dal fenomeno dell’”assimilazione”. È importante sottolineare che lo psicologo analista svizzero in questo fattore automatico, l’assimilazione, scoprì il complesso a tonalità affettiva che antecedentemente aveva indicato come errore di reazione. In linea di principio Jung non mette in dubbio il valore dell’esperimento, ma lo circoscrive criticamente. Il puro meccanismo dei riflessi non dà il tempo necessario a che si produca il fenomeno dell’assimilazione, per cui l’esperimento non viene invalidato da essa, mentre nel campo degli intricati processi psicodinamici emergono possibilità di numero indefinito che danno luogo ad una costellazione. Jung spiega che riferisce il termine costellazione ad una “predisposizione di attesa” a partire dalla quale si reagirà in un modo perfettamente definito(Jung 1934). Per Jung i contenuti costellati sono Complessi definiti, ossia per dirla con Book a proposito di CCRT, unità discrete, che posseggono una propria specifica tonalità affettiva. I Complessi influenzeranno l’esperimento, determinando una reazione disturbante o una specifica modalità di reazione che disattende il significato della parola stimolo, associando alle parole stimolo una serie di sintomi di disturbo, operazione dovuta all’affetto del loro Complesso. Jung continua affermando che: “l’esperimento sulle associazioni rappresenta la situazione psichica del colloquio con valutazioni quantitative e qualitative approssimativamente esatte”. Una volta riscontrata l’esistenza dei Complessi nell’inconscio di una persona, Jung ne dà la seguente definizione: “il Complesso è un insieme di rappresentazioni interne dell’individuo, inconsce e a forte tonalità affettiva” (Jung 1934). Dopo questa definizione l’autore delinea le seguenti caratteristiche del Complesso, utilizzando quello il suo linguaggio preferito, cioè asistematico, ricco di geniali intuizioni, ma povero di incisività per quanto concerne la forza di penetrazione e di impatto sul lettore. Esso:
- è l’immagine di una singola situazione psichica caratterizzata in senso vivacemente emotivo che è per di più incompatibile con l’abituale condizione o atteggiamento della coscienza; a nostro modo di vedere, il Complesso in tale ambito di significato non è diverso dal CCRT di Luborsky.
- è connotato da forte tonalità affettiva, altro elemento affine al CCRT;
- possiede una forte compattezza interna, una sua propria completezza e un grado relativamente alto di autonomia; ribadiamo è un’unità discreta come il CCRT di Luborsky.
- si comporta come un “corpus alienum” animato che può essere represso dalla coscienza, ma non eliminato.
- ha anche una sua specifica memoria e un suo definito tratto caratteriale; in definitiva Jung sostiene che non vede nessuna differenza di principio tra una personalità parziale e un Complesso.
- non è mai stabile, nei sogni appare personificato; in certe psicosi diventa sonoro come una “voce”.
- ha una sua specifica fisionomia le cui cause originano da traumi o shock emotivi che hanno provocato il distacco di una parte della psiche dal dominio della coscienza; tali traumi sono prodotti generalmente da “un conflitto morale”, determinato dalla impossibilità di dare accesso, nella coscienza e nei comportamenti, alla “totalità della natura umana”. Anche il CCRT è causato da stressors, ma Luborsky non prende in considerazione, a differenza di Jung, il conflitto morale come trigger, quanto per lui possono esserlo gli accadimenti ambientali; dunque, il potere di assimilazione del Complesso può esitare in una modificazione, un cambiamento che Jung definisce come “identificazione” con il Complesso. Allora assistiamo ad un’abituale lapsus da Complesso “fino alle violente imprecazioni blasfeme di una compulsione ossessiva”. Si tratta solo di una differenza di grado. La presenza dei Complessi che agiscono dall’inconscio sulla coscienza dimostra, di quest’ultima, un grado di illibertà più o meno accentuato (Jung 1934).
Proseguiamo il ns percorso affrontando ora il funzionamento del Complesso. Jung, nella sua dissertazione del 1934 sui Complessi, finisce per asserire che la via regia per l’inconscio non è costituita né dai sogni né dalle libere associazioni, ma proprio dai Complessi. L’autore però sottolinea anche che “la paura del Complesso è una cattiva guida”, perché distoglie sempre dall’inconscio e rimanda l’individuo alla sua coscienza(Jung 1934). Nessun uomo può essere persuaso che le forze istintuali inconsce di un Complesso possano significare qualcosa di buono, per cui da ciò ne deriva che lo studio del CCRT possa tendere, dal ns punto di vista, più alla ricerca del male e meno alla sottolineatura degli aspetti positivi. Anche in campo junghiano, pertanto, il lavoro sul Complesso può essere orientato maggiormente alla destrutturazione dei suoi aspetti negativi, piuttosto che tendere a una sua restaurazione in senso positivo, scelta quest’ultima che può avere dei buoni effetti in una prospettiva fisiologica. La paura del Complesso viene definita da Jung come un fortissimo pregiudizio, che impedisce di considerarlo come “un normale fenomeno vitale” (Jung 1934). Questa paura produce una forte resistenza sostanziale che lo indica come qualcosa di pericoloso e una sensazione di resistenza che lo connota come qualcosa di ripugnante (Jung 1934).
Pericolosità e ripugnanza sono anche gli ostacoli che il paziente incontra lungo la via regia che porta all’inconscio, solo che Freud ha identificato nella rimozione pulsionale tale ostacolo, mentre Jung lo individua con la minaccia dei complessi inconsci nei confronti dell’assetto cosciente. Per Freud tendenze incompatibili con la coscienza per la loro immoralità cadono sotto l’effetto della rimozione. Jung attribuisce invece alla pericolosità e alla ripugnanza del Complesso la sua scotomizzazione nell’inconscio e la sua proiezione sul mondo esterno. Fa riferimento per il concetto di Complesso anche a scritti di importanti filosofi quali Leibniz, Kant, Schelling, Carus, Von Hartmann[2].
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L’autore arriva infine all’ardita conclusione che i complessi condizionano la vita di tutti noi, compresi i ricercatori, e che saranno per loro anche i decisori di una concezione psicologica. In altri termini, essa che rappresenterà precisamente il limite del loro punto di vista psicologico che Jung definirà “equazione personale” dell’osservatore. Se ne deduce che la stessa teoria di riferimento di un ricercatore abbia il carattere di Complesso e sia per questo motivo che “le violente reazioni reciproche tra psicologi di differente orientamento teorico provocano dibattiti “fortemente emotivi” anche nel campo del dibattito scientifico” (Jung 1934). Lo psicologo svizzero finisce per sostenere che tutti i teorici della psicologia corrano lo stesso pericolo, perché toccano con mano un elemento non domato dell’uomo, il nouminoso che costituisce il nucleo affettivo centrale del Complesso e dell’Archetipo da cui esso prende origine. Dichiara così apertamente che dove inizia l’area dei complessi cessa la libertà dell’Io. In tal senso, tre sono secondo lui i problemi sollevati dalla sua teoria dei Complessi: quello terapeutico, quello filosofico e quello morale, ancora aperti alla discussione tutt’oggi (Jung 1934).
Livelli strutturali del Complesso in una prospettiva clinica dimensionale nell’ottica della psicoterapia psicodinamica breve ad orientamento junghiano comunicativo
Fra i Complessi ci soffermiamo in particolare, ai fini successivi dell’esemplificazione di un caso clinico, sul complesso fraterno. Adler fu tra i primi psicoanalisti freudiani, poi fondatori di un loro percorso autonomo di pensiero, che si interessarono alle conseguenze sulla psiche della nascita di un fratello o di una sorella, sottolineandone gli effetti sulla formazione del carattere. Secondo Adler, infatti, il/la primogenito/a conserverà della lotta per la sua supremazia sul fratello/sorella i tratti della competitività e dell’indipendenza, mentre il/la fratello/sorella minore coverà sempre un proprio complesso di inferiorità che cercherà di compensare sotto forma di volontà di potenza (Adler 1908; 1929-1930).
Dopo un lungo periodo di ridotto interesse per l’argomento, nella psicoanalisi abbiamo assistito negli ultimi anni ad una significativa ripresa di interesse verso la problematica del fraterno, in particolare riportiamo l’interessante contributo dello psicoanalista francese René Kaes (2008). Secondo l’autore, una riflessione maggiore sulle dinamiche psichiche inconsce tra e con i fratelli è stata determinata dalle notevoli trasformazioni delle strutture familiari, in collegamento con i mutamenti culturali, economici e sociali che hanno interessato il mondo occidentale dalla fine del XIX secolo. Ciononostante, l’autore francese sottolinea che sono rari i contributi psicoanalitici sul complesso fraterno, ipotizzando che tale posizione garantiva, in qualche modo, a Freud la supremazia della problematica edipica.
Kaës ritiene invece che il complesso fraterno “non adombri e non escluda” le conflittualità edipiche, ma anzi, che i due “Complessi” si incrocino di continuo pur mantenendo ognuno una propria specificità e un proprio ruolo nella costruzione della personalità̀, delle difese, delle identificazioni e degli oggetti interni, fino alla costruzione dei legami oggettuali e delle relazioni gruppali. La stessa mitologia ci richiama a questa considerazione, lasciandoci in eredità le figure di Antigone e Ismene, Eteocle e Polinice, figli e fratelli di Edipo. Le conflittualità che si sviluppano nel rapporto tra Eteocle e Polinice (fratello-fratello), tra Antigone e Creonte (nipote-padre), tra Antigone e Ismene (sorella-sorella), tra Creonte ed Emone (padre-figlio) e, infine, tra Creonte ed Euridice (marito-moglie), sono di natura squisitamente morale e scaturiscono inizialmente dalla dinamica incestuosa del Complesso di Edipo, assumendo successivamente una maggiore e più complessa rilevanza proprio nelle dinamiche correlate al complesso fraterno, in un circuito che sia autoalimenta (Kaes 2008). Il Complesso di Edipo, dunque, è il nucleo fondante che anima tutte le relazioni familiari che si sviluppano nei personaggi che sono anche più rappresentazioni interiori dell’essere umano nella sua identità conscia ed inconscia, compreso il Complesso fraterno.
Dopo questo necessario chiarimento, la nostra proposta, in una prospettiva clinica dimensionale, è di concettualizzare operativamente un Complesso a forte tonalità affettiva, che risulterà come di seguito strutturato:
- Un pattern of behaviour, ereditato dalla caratteristica strutturale dell’archetipo da cui scaturisce e, in quanto tale, affine al concetto di CCRT di Luborsky;
- Un livello immaginale, emotivo-relazionale, finalizzato alla costruzione dell’aspetto rappresentazionale dell’universo umano di cui il paziente fa esperienza sin dalla nascita: padre, madre, fratelli, sorelle, in linea con il concetto di rappresentazione del CCRT di Luborsky;
- Un livello intrapsichico di base deputato alla realizzazione di funzioni psicologiche, da Jung definite Tipi psicologici, tese alla realizzazione della propria identità umana;
- Un livello intrapsichico di ordine superiore teso alla realizzazione di valori spirituali e religiosi: si tratta del livello di confine tra il Complesso e l’Archetipo di riferimento, deputato alla elaborazione del senso ultimo della propria vita l’Unus Mundus, concezione dell’universo conscio ed inconscio di natura bio-psico-spirituale in un’accezione junghiana.
Le diverse reazioni degli individui – RS del CCRT -, nelle loro espressioni sia normali sia psicopatologiche, hanno un minimo comune denominatore. Tutti gli individui hanno reazioni, dettate da un sentimento condiviso, ad es. dalla paura. Quest’ultima come difesa può generare, conseguentemente, alcuni tipi di reazione con relativi meccanismi di difesa: comportamenti di attacco e fuga; scissione tra immagini di sé e dell’oggetto, idealizzate e svalutate, ma tenute separate ad opera della scissione stessa; reazioni polivagali di natura neurovegetativa (Porges 2017), ad es. bradicardia, apnea, finta morte, svenimento, per citarne alcuni; o ancora rifugio in ambiti immaginari compensatori dello stato di sofferenza come nel caso di agiti maniacali di shopping compulsivo, gioco d’azzardo e uso di sostanze. D’altro canto, una reazione negativa dell’oggetto – RO del CCRT – alle aspettative del soggetto – W del CCRT – si potrà estrinsecare in vari contesti e/o alla presenza o con la compartecipazione di altre figure: una moglie, una madre, un nonno, fratelli/sorelle, amici del paziente. Le loro diverse reazioni intrapsichiche saranno comunque caratterizzate da pattern conflittuali condivisi da tutti, anche se non uguali per tutti. Diamo quindi per implicita, nella stessa definizione junghiana di Complesso, la sua diadicità e/o multifattorialità, determinata dal polimorfismo delle rappresentazioni interiori coinvolte. Questo nostro assunto di base è confermato ed è implicito nella stessa definizione junghiana di Complesso: un insieme di rappresentazioni psichiche inconsce unite da una forte tonalità affettiva di amore e di odio. L’autore non riconosce nell’ambito del complesso una sua dimensionalità, che si manifesta lungo uno spettro verticale che va dall’infrarosso delle immagini negative all’ultravioletto dell’immagini positive, che aprono il Complesso alla prospettiva di una superiore spiritualità. Volendo esemplificare, tutte le rappresentazioni interiori si possono spogliare dei loro vestiti concretistici per ascendere al livello superiore spirituale delle immagini, come può esserlo Cristo per le figure di sesso maschile e la Madonna, per quelle femminili.
La descrizione psicopatologica del CCRT si focalizza sul desiderio che, come sappiamo, è la rappresentazione psichica della pulsione. Il Complesso junghiano, viceversa, comprende in sé questo motivo psicodinamico del desiderio come aspetto psichico della pulsionalità biologica, ma non si esaurisce in esso.
La stessa analisi del Complesso scopre anche un suo lato construens, e non solo destruens, e che esso strutturalmente fa parte del normale funzionamento psichico. Nella nostra casistica clinica, ad esempio, pazienti che si autodefinivano sul piano conscio accesamente atei non solo nei sogni, ma anche nella Sand Play Therapy, esprimevano contenuti di evidente significato religioso, in ottemperanza alla natura compensatoria dell’inconscio junghiano nei confronti della unilateralità dell’orientamento cosciente. I pazienti, in tal caso, erano contaminati da, se non preda di, un Complesso religioso contro cui combattevano. Non era quindi in gioco una libido pulsionale, ma la libido junghianamente intesa come elàn vital (Jung 1912), quindi di natura spirituale. Infatti, essi manifestavano una forte ed evidente opposizione ai temi religiosi, ma, allo stesso tempo, una contestuale insormontabile difficoltà di accesso alle verità inconsce di natura spirituale e ai conseguenti conflitti morali inerenti al Complesso. Questo stesso tipo di pazienti, sul piano conscio relativizzavano tutti i contenuti psichici, a scopo difensivo, in un amorfo caotico e onnicomprensivo crogiuolo, la mera materia, senza alcuna possibilità di distillarne essenze simboliche. Non andavano mai oltre il prendere coscienza parcellare del rapporto tra il loro sintomo e la figura negativa di riferimento, ma con un notevole impedimento ad un percorso dimensionale di elaborazione del loro problema psichico.
Onde superare le aporie derivanti dalla parcellizzazione delle comunicazioni consce ed inconsce nelle singole unità di base del CCRT, che comporta un possibile uso falsificante delle medesime da parte dell’Io e delle sue strategie difensive soprattutto intellettuali, proponiamo una operazionalizzazione dei dati sperimentali, individuando questi ultimi nel concetto di derivato. Ci riferiamo quindi ad un’operazionalizzazione di processo realizzata con una analisi del processo.
Il Metodo di trattamento e di ricerca dei dati operazionabili
L’unità operativa e di ricerca è la stessa: il derivato (Berivi 2012). Con tale termine, mutuato da Freud, che parla in Metapsicologia di “propaggini del rimosso originario” (Freud 1978) e successivamente sviluppato da Langs (Langs 1973-74; 1988), ci si riferisce a comunicazioni al limite del preconscio, prevalentemente inconsce, costituite da associazioni libere, sogni, lapsus, atti mancati, linguaggio fisiologico e patologico del corpo. La struttura del derivato consiste in una comunicazione costituita da uno o più soggetti, uno o più oggetti e un verbo.
Il verbo contenuto nel derivato può esprimere:
1) La richiesta di appagamento di un desiderio pulsionale o la frustrazione del medesimo, con correlati meccanismi di difesa che possono essere di livello:
a) Alto: secondari alla rimozione
b) Medio: secondari alla scissione
c) Basso: secondari alla dissociazione
d) Corporeo: polivagali e/o psicosomatici
2) La richiesta di appagamento di un desiderio relazionale/emotivo o una sua frustrazione:
a) Accoglimento e /o rifiuto da parte dell’oggetto.
b) Accoglimento e /o rifiuto di un bisogno di attaccamento (Ainsworth et al. 1978; Main & Solomon 1990)
3) Lo sviluppo o la frustrazione di un moto fusionale tra la preconcezione archetipica dell’oggetto (cioè il complesso) e la sua figura reale e concreta
4) La realizzazione di un talento/attitudine del soggetto (Kohut 1971)
5) Sviluppo e/o frustrazione di un moto religioso avente per oggetto figure transpersonali trascendentali/immanenti o trascendenti.
Tutte queste comunicazioni all’interno del campo bipersonale paziente-terapeuta possono essere operazionalizzate in analogia con la manualizzazione del CCRT di Luborsky. Poiché la distinzione tra i derivati e le altre forme di comunicazione conscia ed inconscia richiede uno studio ed una competenza tecnico-professionale molto profonda e raffinata, il lavoro di differenziazione tra i derivati e le comunicazioni rimuginative, fatte di credenze, opinioni, vissuti consci, comportamenti giustificati, richiede vieppiù l’ingaggio nella ricerca di analisti didatti molto esperti dal punto di vista clinico.
Esemplificazione clinica di un Complesso fraterno curato con una psicoterapia psicodinamica breve ad orientamento junghiano comunicativo
Al fine di illustrare l’importanza del conflitto etico come base di un complesso psicopatologico, ci accingiamo ad illustrare, qui di seguito, un caso clinico che offre spunti di riflessione anche teorica sul Complesso. Si tratta di una paziente di 31 anni, affetta da un complesso fraterno, con una correlata sindrome diffusa ansiosa focalizzata sulla vita della sorella minore, seguita in un percorso di psicoterapia psicodinamica breve ad orientamento junghiano.
Anna è una giovane donna, ingegnere, molto affermata nel suo lavoro per una sua indiscutibile intelligenza superiore alla media. Ha un fidanzato che lavora nel suo stesso settore informatico, ma con una sede operativa distante 600 Km da dove abita. Chiede al suo medico di base di ricorrere ad una psicoterapia, perché ha subito un fortissimo incremento di ansia essendo venuta a conoscenza della iniziale sclerosi multipla della sorella. Riportiamo fedelmente e integralmente la 1° e la 21esima seduta della psicoterapia psicodinamica breve ad orientamento junghiano comunicativo, della durata di sei mesi, per un totale predefinito di 24 sedute. Tale esposizione ha lo scopo di dimostrare in modo documentato l’efficacia terapeutica di tale approccio terapeutico e iniziare ad individuare i fattori operazionabili per successivi approfondimenti clinici e di ricerca statisticamente significativa.
Il terapeuta è uno specializzando in formazione che opera con la supervisione con un analista didatta.
1° Seduta:
[La Paziente arriva in anticipo, ma le viene consentito di entrare solo all’orario concordato]
T: avevamo appuntamento alle 8:00, la riceverò alle 8:00. Si può accomodare qui e se le serve il bagno è qui davanti.
P: va bene
Alle 8 inizia la seduta.
T: come sta?
P: bene
T: che cosa l’ha condotta qui?
P: ne avevamo già parlato con la Dott.ssa X, è successo un evento inaspettato. A febbraio a mia sorella è stata diagnostica la Sclerosi Multipla. Una doccia fredda, il mio modo di vedere le cose è cambiato, ora sono pessimista, anche prima forse lo ero, ma ora sono peggiorata. Inizio ad avere anche dei sintomi fisici sul mio corpo, sono sempre stanca, apatica, senza forze.
T: che tipo di stanchezza?
P: come se dovessi svenire [difesa polivagale][3] non ho voglia di fare le cose, faccio le cose solamente indispensabili [difesa depressiva], mi viene mal di testa, mal di stomaco; ultimamente mi sono uscite anche delle ghiandole che si sono ingrossate e dei rash sulla pelle.
[Derivato negativo: linguaggio psicopatologico del corpo]
Mi sento in colpa, mi sento tremendamente in colpa che sia successo a mia sorella e non a me. [Derivato negativo: linguaggio psicopatologico della mente, la colpa]
T: quanti anni ha sua sorella?
P: 26.
T: vivete insieme?
P: no, mia sorella vive con i miei genitori ed io da sola.
T: sua sorella come sta adesso?
P: a vederla sta bene, ora sta meglio, ha risolto il problema che aveva al ginocchio, mia sorella è forte, aggressiva, decisa.
T: come si è accorta della malattia sua sorella?
P: in una maniera piuttosto brutta, aveva dei problemi al ginocchio che pensavano fossero dovuti al movimento; poi una volta un osteopata, presso la palestra ove andava, le ha suggerito di farsi una RM e lì sono uscite le placche. È allucinante, per tanti anni si era pensato fosse un problema muscolare e nessuno ci aveva pensato.
T: quanto tempo è passato dall’insorgenza del male al ginocchio alla diagnosi?
P: meno di 1 anno, ci è sempre stato un miglioramento, mia sorella è stata molto forte, siamo stati tutti molto forti, verso mia madre soprattutto.
T: perché?
P: mi chiamava in lacrime, c’era una forte paura e dolore da parte sua ed angoscia, e molta preoccupazione ed agitazione; da parte mia, invece no, cercavo di essere forte e calma per supportare mia madre, mi sono dovuta sentire i suoi pianti e i suoi sfoghi.
T: che cosa le diceva sua madre?
P: diceva che non capiva il perché fosse successo a mia sorella, non se lo spiegava, si sentiva crollare il mondo addosso
[Derivato negativo: inversione associativa dei ruoli, richiedere sostegno piuttosto che darlo]
T: che paure ha Lei?
P: che mia sorella possa perdere la deambulazione e l’autonomia, anche mamma ha paura di questo. Alla fine, però poteva andare peggio, ora ha recuperato.
T: prende farmaci sua sorella?
P: fa delle fiale una volta a settimana, però a casa, ora non andiamo più all’ospedale. Il periodo dell’ospedale è stato un incubo, ci toccava fare le file, stare in mezzo alla gente per molto tempo, una burocrazia infinita. Ho sofferto molto in quel periodo, ero angosciata a fare le attese e le file in ospedale, però ora è passato grazie a dio.
[Derivato negativo: attesa tra una seduta e l’altra vissuta come troppo lunga]
T: ha altri fratelle e sorelle?
P: no.
T: suo padre che dice?
P: nulla, non si espone, non si è mai sfogato.
[Derivato negativo: non esprimere emozioni da parte del padre]
T: e con sua sorella?
P: normale, non le ha detto nulla, le trasmette forza ma senza eccessi od angosce, è l’opposto di mamma.
[Derivato positivo: di natura transferale sullo psicoterapeuta]
T: lei ha avuto modo di esporsi e confrontarsi con qualcuno?
P: si, con il mio fidanzato. Mia sorella ha voluto si mantenesse il riserbo sulla sua malattia; pertanto, lo sappiamo solamente io ed il mio fidanzato, nemmeno i miei zii ed i cugini lo sanno, lei non ha voluto.
T: forse sua sorella non vuole essere vista debole o fragile?
P: mia sorella non dice nulla, non è debole né fragile, semplicemente non vuole che si dica. Nemmeno le mie migliori amiche lo sanno, non glielo ho potuto dire.
T: sua sorella con chi ha avuto modo di confrontarsi?
P: con alcune sue amiche molto strette e con me.
T: lei invece si sente supportata?
P: non lo so, non so se dovrei essere supportata o se mi dovessi aspettare di esserlo, la malata è lei. Non ne parlo nemmeno più di tanto con il mio fidanzato di questa situazione. Non amo parlarne, ogni volta che ne parlo risale il dolore, il dispiacere, ci sto male.
T: però se lei non ci pensa, ci pensa il suo corpo.
[La paziente ha le lacrime agli occhi]
[Derivato positivo: linguaggio fisiologo del corpo, il pianto]
T: se vuole piangere si senta libera di piangere, non è detto che si debba sempre parlare.
T: che lavoro fa?
P: risk manager, sono un ingegnere, lavoro in autostrade.
T: da quanto sta con il suo ragazzo?
P: circa 4 anni. Ci siamo conosciuti quando io lavoravo in un altro stato estero, lì venivo da una storia in cui mi ero lasciata da poco, non avrei voluto un’altra storia ma poi ho conosciuto lui e così per scherzo ci siamo fidanzati. Viviamo a distanza, lui lavora in un’altra città italiana del sud, ci vediamo nei weekend quando possiamo. Mi sento sola, spero il 2023 sia l’anno della svolta per noi. Non è stato facile girare così tanto, sono stata molto indipendente.
T: cosa Le viene in mente a proposito della Sua professione?
P: un tempo si, ero brava, ho fatto tutto in tempo, mi sono laureata in 5 anni. Ora sono svogliata, non ho voglia di fare le cose, sono cambiate le mie priorità dopo la malattia di mia sorella, non investo più come prima sul lavoro; prima ero molto pignola e precisa, ora mi sento sciatta. Prima volevo realizzarmi, ero indipendente. Ora mi sento meno forte di prima.
T: che lavoro fanno i suoi genitori?
P: papà lavora in un’officina meccanica per motorini, mamma parrucchiera.
T: sua sorella studia?
P: si, ma non ha finito ancora l’università, è stata discontinua, ha fatto qualche lavoretto qua e là, ora ha ripreso a studiare, ma ora con la malattia non so bene cosa vuole fare e questa cosa mi angoscia.
[Derivato negativo: linguaggio psicopatologico della mente negativa, identificazione con la sorella nella malattia]
T: ha fatto dei sogni ultimamente?
P: sogno spesso ma non me li ricordo, ultimamente ho sognato il mio cane in un giardino pieno di luce che mi sorrideva, gli altri però non me li ricordo.
[Derivato positivo: il cane che le sorride allude all’aver già stabilito una relazione con il terapeuta]
T: portare i sogni in terapia può essere utile, potrebbe se vuole quando si sveglia appuntarli su un quadernino così li fissa e non li dimentica.
P: ci proverò.
T: la seduta sta per finire, le sedute dureranno 45 minuti e saranno il lunedì mattina alle ore 8:00, come anticipato.
P: d’accordo.
T: va bene allora ci salutiamo.
[Alle 8 e 45, in orario, si conclude la seduta]
21° seduta:
[La paziente arriva in orario]
P: Buongiorno, da quanto tempo, sembra una vita che non ci vediamo. L’ultima volta è stata colpa mia, sono stata malissimo. Poi, quando sono stata male la ho pensata, che è stato male anche lei, mi sono chiesta se fosse stata la stessa malattia io ho avuto la gastroenterite, ovvero che abbiamo avuto la stessa malattia.
[Derivato negativo: identificazione con il terapeuta nella malattia come con la madre nell’ansia]
P: a parte che sono stata male, questa è stata una settimana tranquilla, dopo Pasqua mi trasferisco a casa nuova. Da martedì prossimo iniziamo il trasloco, già da mercoledì ci dovrei stare fissa, a parte gli inconvenienti, i ritardi, sembra che questa settimana si chiudano parecchie cose, è arrivato il momento tanto atteso con tanto entusiasmo, andrò a casa con il minimo sindacale, non è ancora conclusa, ma è vivibile, sono contenta. Chissà se la malattia della mia settimana scorsa, quando sono stata male, è stata l’ansia.
[Derivato positivo: si trasferisce dall’ambiente mentale della colpa e dell’ansia a quello dell’indipendenza nel benessere senza ansia e della sua identità sana].
T: nell’altra seduta i temi che Lei ha riportato hanno evidenziato come il fatto di averla avvisata della mia assenza a notte inoltrata, abbia generato in lei ansia e angoscia che l’ha portata di conseguenza a comportarsi in maniera analoga, avvisandomi a notte inoltrata della Sua successiva malattia.
P: sì, io sono ansiosa. Ora sta bene anche il cane.
[Derivato positivo: allusione alla ripresa di fiducia nella relazione terapeutica]
P: quando l’ho avvisata mi sentivo in colpa mentre scrivevo. Magari non avevo capito il sentimento con cui l’ha scritto quella sera, ma leggendo il suo messaggio quella volta ho pensato subito che fosse successo qualcosa di brutto, che le fosse successo qualcosa di grave e di repentino e quindi mi sono preoccupata, ma questo è il mio approccio. Sempre ansioso che sicuramente è da rivedere.
[Derivato negativo: presenza di ansia anche se indotta dal comportamento del terapeuta] P: ieri pure che ero in Puglia con il mio ragazzo, ci chiama una coppia di amici per dirci di prendere un caffè alle 12 ed io sono andata subito nel panico perché ho pensato subito ad un imprevisto o a qualcosa di grave; invece, ci volevano semplicemente avvisare che si sarebbero sposati e ci volevano invitare al matrimonio.
[Derivato positivo: il riconoscere da parte del terapeuta dell’inopportunità della chiamata notturna, in quanto riconoscimento implicito di aspetti controtransferali, ha prospettato una unione profonda con lei]
P: però, rispetto al passato, sto molto meglio perché perlomeno adesso mi faccio la domanda, fatti venire il dubbio che ci sia qualcosa di buono e che non sia solo negativo, questa domanda me la faccio 10 minuti dopo, prima invece non me la facevo per nulla. Da quando abbiamo iniziato la terapia quindi sicuramente vi è stato un cambiamento positivo.
T: da quello che ha detto, dicendo di andare a vivere a casa nuova mi sta simbolicamente comunicando che qui in terapia c’è qualcosa di nuovo che si sta costellando nella Sua situazione psichica. Insieme abbiamo raggiunto il minimo sindacale, ossia la risoluzione del dominio assoluto dell’ansia; così si può andare avendo messo le basi.
P: abbiamo iniziato ad ottobre il nostro percorso, me lo ricordo, in concomitanza del compleanno di mio padre, abbiamo fatto passi avanti, specialmente nel mondo emotivo, sono contenta. Voglio lavorare anch’io su me stessa e sul mondo delle mie emozioni. Indipendentemente dal percorso che faremo insieme. L’altra volta abbiamo parlato di emozioni e del viverle. Se io davanti mi metto un muro non le vivrò mai; mi propongo di viverle, di conoscerle. Di questo voglio fare esperienza, mi è piaciuta questa chiave di lettura; quindi, me la porto a casa.
[Derivato positivo: fare sua la chiave di lettura del terapeuta, al di là della possibilità o meno di continuare la psicoterapia]
T: che cosa le passa dentro in merito al vivere le emozioni?
P: a vivere quelle brutte ho paura di farmi male specialmente se non le vivo, me le trascino. Se avessi vissuto a pieno la malattia di mia sorella non l’avrei trascinata tutto questo tempo, è stato solo un procrastinare. Io sono tornata a vivere a casa dei miei una decina di giorni dopo che abbiamo iniziato la terapia. Chissà se è stata una coincidenza, da sola sarebbe stato uno schianto, vivere con i miei e mia sorella, Lei mi ha molto aiutato. Speriamo che non capitino più emozioni negative, però sicuramente ora mi sento di avere più strumenti. Allo stato attuale, ogni volta che vengo qui mi sembra di svuotare un vaso e sto meglio, sono molto più leggera. A Pasqua andrò in Puglia, sarà la prima volta che non passo la Pasqua con i miei, a parte quando ero in trasferta per lavoro. Sono proprio contenta di aver comprato casa lontana da tutti questi “suoceri” (compresi i genitori! n.d.r.). L’altro ieri è stato il compleanno della sorella di M, a pranzo c’erano i genitori, gli zii e la sua mamma mi prende a braccetto e mi dice: allora sono tua suocera, che bello. Tutta questa vicinanza non la voglio, mi genera un po’ d’ansia, non mi piacciono tutte queste intromissioni nella coppia, è una cosa che non voglio condividere, la mia relazione. Allora la mamma di M mi ha detto, vabbè, sarò tua amica. Un po’ mi mette ansia. Mi da fastidio che lo chiami anche la domenica, se non lo vede per due giorni. La famiglia la vivo un po’ come un obbligo, nel senso che uno è obbligato a frequentarla; su questa cosa della famiglia devo trovare un equilibrio. Per ora sono fuggita.
[Derivato positivo: fuga/evitamento agita/o nei confronti di una figura materna intrusiva]
P: Il fatto di avere casa mi salva da mia madre, che continua a farmi domande; ogni volta che sto lì, è insistente, mi pungola, mi stressa con le domande quando torno dal lavoro. È molto invadente.
[Derivato positivo: ho preso distanza da mia madre]
T: Pensa che io le abbia fatto domande invasive?
P: no, anzi Lei chiede molto poco, se chiedesse di più sarebbe più facile. Mia madre è come un ticchettio continuo con queste domande, alla fine ti portano ad allontanare le persone. Questo rapporto con i miei genitori è molto conflittuale, mi chiedo se il mio modo di fare non sia legato anche al loro distorto rapporto e a quello che è successo in passato. Ho riflettuto anche sul fatto che spesso non parlo di M con i miei forse perché va bene e non c’è bisogno di parlarne, se non l’altra volta che abbiamo discusso. Voglio concentrare le energie su una mia futura famiglia e come sarà con loro il nuovo rapporto. Alla fine, mi dispiace ora lasciare lì il mio cane e mia sorella.
[Derivato positivo: accettazione della dipendenza dal terapeuta e di dolore per la separazione dalla sua identificazione con la sorella]
T: andando via di casa è normale provare dispiacere nel lasciare i propri genitori, ma si apre anche, come Lei stessa ha appena detto, una strada diversa che Le può far analizzare più serenamente il rapporto con i suoi genitori, in un contesto in cui Lei sicuramente è meno sotto pressione, stando da sola.
P: si è vero mi dispiace ed ora sento l’esigenza di farlo.
T: per oggi abbiamo finito, ci vediamo il 17.
P: il 24 lei ci sarà o farà il ponte?
T: ci sarò.
P: che bello, arrivederci.
[la seduta si conclude in orario]
Una proposta di analisi operazionalizzata del single case secondo il criterio processuale correlata con il sintomo
Il Complesso, come unità di base del nostro metodo e a nostro modo di vedere, offre all’analisi discreta del processo dati immediati e fattori coscienti operazionalizzabili che permettono di correlare l’attenuazione e /o la scomparsa del sintomo, nel nostro caso l’ansia, con la modifica della distribuzione dei derivati e non delle semplicistiche occorrenze che quasi sempre sono il frutto di operazioni falsificanti dell’Io conscio. In tal caso, si tratta di uno studio orientato alla verifica dell’efficacia sul sintomo, che, in modo per noi piuttosto superficiale, conferma l’esito della psicoterapia con la sola risoluzione del sintomo. Questo tipo di statistica è, per i dati operazionalizzati, esposta proprio alle operazioni falsificanti dell’Io conscio. Diversamente, nell’analisi del Complesso, noi preferiamo adottare uno studio discreto fondato sull’analisi del processo (ad es. nel single case che cercheremo di analizzare), in cui l’unità di base è il derivato.
Langs, lo ripetiamo, definisce i derivati come forme narrative che costituiscono la struttura delle libere associazioni, i sogni, i lapsus gli atti mancati, il linguaggio patologico del corpo e fisiologico del corpo. Esso è l’unità di ricerca che rappresenta il dato osservazionale. Nella nostra ottica, infatti, non sono le credenze, né le opinioni, i vissuti, i comportamenti coscienti a costituire il dato significativo da correlare con il sintomo, ma lo sono i derivati che palesano esprimendolo in codice simbolico il conflitto inconscio e la sua soluzione anche etica. Nel nostro caso specifico, possiamo ipotizzare, tramite l’analisi dei derivati, che la paziente riesca a ricondurre nella relazione transferale la sua identificazione sia con la madre ansiosa sia con la sorella malata. Ciò accade quando la paziente vive proprio nella relazione transferale la sua identificazione con il terapeuta, anche lui malato, che, “grazie al suo controtransfert”, dà occasione alla paziente di percepire la realisticità della sua identificazione inconscia con il terapeuta malato, ma anche la realisticità dell’identificazione del terapeuta con lei malata. Lo scioglimento di questa identificazione reciproca viene ottenuto dalla paziente quando lei si autopropone la dissoluzione della dinamica tra i due opposti. In questo modo, ella prende consapevolezza che con il terapeuta stanno insieme in una doppia inconscia identificazione malata come generalmente le accade anche con la madre e sorella. Contemporaneamente, accede anche al superiore livello simbolico di un progetto di unione con il terapeuta in una nuova casa psichica, ove può trovare spazio la sua identità non più confusa com’era con l’identità malata della madre e della sorella.
L’operazionalizzazione dei derivati come dati positivi e negativi di una prima forma di ricerca da noi proposta, solo osservazionale, ha portato ai seguenti risultati:
1° Seduta
Derivati negativi: 6
Derivati positivi: 3
21° Seduta
Derivati negativi: 4
Derivati positivi: 7
L’inversione dei valori tra la prima seduta e la 21esima è, secondo noi, di tutta evidenza.
Analisi clinica del caso secondo la teoria dei complessi in Jung.
L’evento stimolo dell’inizio di quest’analisi è uno stressor esterno alla paziente, e qui usiamo il termine nella accezione adottata per il CCRT di Luborsky, che non tiene conto della possibile presenza, alla base del sintomo della paziente, di un conflitto morale intrapsichico inconscio, determinato dalla sua ambivalenza verso la sorella amata ed odiata allo stesso tempo. Parliamo di un Complesso fraterno ove il conflitto morale intrapsichico inconscio è presente. La paziente ha eretto contro la consapevolezza di questo conflitto difese sia di alto livello, quale è l’ansia, sia di basso livello, come accade per le reazioni difensive polivagali e psicosomatiche: mal di testa, mal di stomaco, ghiandole ingrossate, rush cutanei, reazione di svenimento, quest’ultima quale classica attivazione del sistema polivagale. Ella attribuisce anche alla sorella a livello psichico forza e aggressività. Si tratta ovviamente di una forza che è espressione di un atteggiamento ipomaniacale di negazione dell’evento, diremmo noi. Nell’ambito del Complesso che è stato costellato dall’evento stimolo, la paziente nutre immagini di sé forti. L’immagine della madre è angosciata da uno stato di allarme, affetta da senso di impotenza e disperazione: perché è toccata a tua sorella? La paziente collega il suo sintomo, l’angoscia, a un vissuto che è stato scatenato nella sua virulenza sia dalla presa di consapevolezza della malattia della sorella, sia dal periodo in cui la accompagnava in ospedale, visto come una struttura dall’accoglienza fredda e anche piuttosto anonima, solo tecnologica. L’ospedale quindi come equivalente simbolico di una madre che risponde al desiderio di calore ed affetto in modo freddo e negligente.
Si nota altresì il silenzio paterno che a differenza dell’ansia della moglie, trasmette forza, ma senza eccessi o angosce. Il padre, secondo quest’ottica, rappresenta una figura che da un lato sembra gestire adeguatamente l’angoscia, ma dall’altro tace come risulta dal racconto della paziente. La difesa utilizzata è il meccanismo dell’evitamento dell’argomento “malattia della sorella”, generatore in lei di dolore, dispiacere e malessere. Nel momento in cui il terapeuta collega questo dolore, vivibile per la paziente solo a livello corporeo, con la sua sintomatologia fisica, la paziente può finalmente permettersi di vivere il suo pianto, cioè il lutto. Ricordiamo che il termine lutto proviene dal termine lugere che significa proprio piangere. In seguito a questo vissuto di dolore, ella mette in discussione il suo senso di autonomia e di indipendenza riferiti alla sua efficienza professionale, che però si accompagnano a un sentimento di solitudine causato dalla distanza spaziale dal fidanzato. Prima della malattia della sorella si sentiva molto forte, ora meno. Proietta sulla sorella, con una latente aggressività nei confronti della eventualità che quest’ultima intraprenda una eventuale professione, l’impulso di non lavorare più e non studiare più che per la prima volta comincia a sentire su sé stessa nell’ultimo periodo. Ha però una reazione nei confronti della malattia della sorella, perché sogna il suo cane in un giardino pieno di fiori e luce che le sorrideva, cioè un istinto inconscio alla vita e alla luce della verità. È il solo elemento positivo in un mare di dolore e sofferenza, correlati alle relative angosce. Rappresenta però anche un segno che fa supporre una prognosi positiva a proposito della risoluzione della sua ansia, sintomo per cui si è presentata in psicoterapia. Infatti, subito dopo il sogno del cane che le sorride, parla associativamente della voglia di concentrare le sue energie su una sua futura famiglia e sul suo nuovo rapporto con la famiglia d’origine. Sono questi i lavori di ristrutturazione che sta facendo in terapia per abitare nella sua nuova casa in modo del tutto indipendente, cioè una casa nuova come nuovo è l’assetto individuale e relazionale che si propone di realizzare. Se si troverà di fronte ad un muro da parte dell’altro, possibile risposta dell’oggetto-terapeuta, essendo entrata in possesso della chiave di lettura, farà da sola.
Conclusioni
L’analisi condotta con la Psicoterapia Psicodinamica breve ad orientamento junghiano comunicativo sul Complesso, pur palesando uno sviluppo che parte dal riconoscimento di questo nelle comunicazioni del paziente e dalla conseguente sua connotazione fraterna, non segue una logica sequenziale cosciente definita a priori, come nel caso del CCRT di Luborsky, ma si affida alla logica simbolico-associativa dell’inconscio profondo, così come delineato dall’ottica comunicativa di Robert Langs.
Il Complesso, da questo punto di vista, si diversifica molto dal CCRT di Luborsky. Quest’ultimo è fondato su tre variabili molto definite: un desiderio, una risposta dell’oggetto, una reazione del soggetto alla risposta dell’oggetto. Nel caso del Complesso noi prendiamo in considerazione non solo un desiderio del soggetto, ma anche un vissuto, un atteggiamento o un comportamento. Ciò perché il solo desiderio potrebbe anche essere un desiderio perverso, e quindi non andrebbe soddisfatto tout court, ma dapprima conosciuto e poi eventualmente eticamente accettato o frustrato. Oppure, sempre il Complesso potrebbe riguardare la realizzazione di un talento o di una necessaria autoassertività della propria identità. Il Complesso, nella sua accezione patologica, farebbe dipendere dalla risposta relazionale dell’oggetto la reazione autosvalutativa della paziente. Poiché, invece, quest’ultima possiede ora la chiave di lettura, potrà fare da sola, cioè non si farà più influenzare negativamente dalle reazioni presunte o attuate dall’altro, trovando nella realizzazione del suo talento anche il compimento della sua autentica identità.
Il Complesso fraterno ha ritrovato la sua funzionalità sana nel processo di acquisizione da parte della paziente della capacità di fare esperienza e di possedere la chiave di lettura dei suoi sentimenti positivi e negativi, non più polarizzati come opposti, ma dissolti da una sintesi che ha trainato la paziente ad un superiore livello dimensionale della sua personalità. Inoltre, la paziente, nell’ultima parte della psicoterapia, non è più lacerata dal conflitto tra amore e odio verso la sorella, e ha ritrovato la sua identità femminile nella “sua nuova casa ristrutturata” che andrà ad occupare al di fuori del contesto familiare “malato del conflitto tra gli opposti”.
Concludiamo con le parole di Jung: “Si potrebbe tuttavia pretendere che il metodo terapeutico debba essere tale da rendere possibile che anche in momenti successivi dell’esistenza si verifichino nuovi orientamenti senza dar luogo a difficoltà” (Jung1957/58).
Bibliografia
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[1] Parleremo del concetto di derivati più avanti nel testo.
[2] Jung sottolinea in particolare l’opera di von Hartman Philosophie des Unbewussten (1869) considerata particolarmente importante.
[3] Le parentesi quadre contengono la valutazione delle singole comunicazioni consce ed inconsce, come previsto dal modello esposto, ad opera dei supervisori.