La Comedia come viaggio e visione nell’interpretazione di Romano Guardini <br> Gennaro Cicchese

La Comedia come viaggio e visione nell’interpretazione di Romano Guardini
Gennaro Cicchese

di Gennaro Cicchese

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Parole chiave: Viaggio, Visione, Luce, Realtà Cosmica, Realtà Celeste.

Abstract:

Questo saggio ripercorre sinteticamente gli studi danteschi del filosofo e teologo Romano Guardini, concentrandosi in particolare sul “viaggio” di Dante nella Comedia che si manifesta come “visione”. Dallo smarrimento iniziale nella “selva oscura”, il perfezionamento della sua persona si compie nel viaggio nell’aldilà, attraverso Inferno, Purgatorio e Paradiso. Sospinto dalla grazia, Dante incontra la realtà celeste mediante cui riscopre e rilegge la realtà cosmica e umana. Dopo lo smarrimento e le tenebre, attraverso il viaggio e la visione, egli ridona al mondo terreno, con la sua opera, la luce e lo splendore perso. Guardini accenna anche a Jung e al suo Commento al Segreto del fiore d’oro.

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Introduzione

È ben nota la passione di Romano Guardini[1] per la Divina Commedia, instillatagli in famiglia fin da piccolo, confluita poi in diversi saggi e lezioni universitarie,[2] tenute nelle università tedesche. Non a caso, perciò, in esergo ai suoi Studi su Dante egli appone la bella dedica: “Alla memoria di mio padre dalle cui labbra fanciullo i primi versi di Dante colsi[3].

Sul poema dantesco hanno scritto tutti e di tutto: anche i papi (Leone XIII, San Pio X, Benedetto XV, san Paolo VI, San Giovanni Paolo II, Benedetto XVI) fino a papa Francesco[4].

Con molta chiarezza l’attuale pontefice esorta, fin dalle prime righe della sua lettera apostolica Candor Lucis, scritta in occasione del VII centenario della morte di Dante, di non leggere, commentare, studiare e analizzare semplicemente Dante, perché egli «ci chiede piuttosto di essere ascoltato, di essere in certo qual modo imitato, di farci suoi compagni di viaggio, perché anche oggi egli vuole mostrarci quale sia l’itinerario verso la felicità, la via retta per vivere pienamente la nostra umanità, superando le selve oscure per cui perdiamo l’orientamento e la dignità»[5].

Vale la pena soffermarsi anche su quanto san Paolo VI, ispirato e colto, ha scritto puntualmente nella lettera apostolica Altissimi Cantus per il settimo centenario della nascita di Dante Alighieri:

«Il Poema di Dante è universale: nella sua immensa larghezza, abbraccia cielo e terra, eternità e tempo, i misteri di Dio e le vicende degli uomini, la dottrina sacra e le discipline profane, la scienza attinta dalla Rivelazione divina e quella attinta dal lume della ragione, i dati dell’esperienza personale e le memorie della storia, l’età sua e le antichità greco-romane, mentre ben si può dire che del Medioevo è il monumento più rappresentativo. Nel suo contenuto tesoreggia la sapienza orientale, il logos greco, la civiltà romana, e in sintesi il dogma e i precetti della legge del Cristianesimo nella elaborazione dei suoi dottori. Aristotelico nella concezione filosofica, platonico nella tendenza all’ideale, agostiniano nella concezione della storia; nella teologia è fedele seguace di San Tommaso di Aquino, tanto che la Divina Commedia è, fra l’altro, in frammenti, quasi lo specchio poetico della Somma del Dottore Angelico. Che se ciò è ben vero nelle linee generali, è altrettanto vero però che Dante è aperto a profondi influssi di Sant’Agostino, di San Benedetto, de’ Vittorini, di San Bonaventura, e non è scevro di qualche influsso apocalittico dell’Abate Gioacchino da Fiore, poiché suole protendersi a cose che albeggiano o che, non ancora nate, sono in grembo del futuro»[6]. 

Ci pare che questa sia una bella sintesi della Comedia, che Boccaccio per primo definì “divina”, e consacrò Dante come padre della lingua italiana. È certamente la più grande opera scritta in lingua italiana e uno dei maggiori capolavori della letteratura mondiale (Bloom, 1994).

  1. Preparazione a Dante

Nella prefazione ai suoi Studi su Dante Guardini sottolinea l’importanza di un approccio filosofico per comprendere in profondità il capolavoro dantesco: «Dal 1930 mi tenne occupato il problema più ampio dell’immagine filosofica e cristiana del mondo offerta dalla Divina Commedia, la quale sola darebbe all’interpretazione del poema l’autentico fondamento» (Guardini 1986, p. 11).

Inoltre, in una sorta di “epilogo soggettivo” a questi suoi Studi, condivide la sua faticosa esperienza di ricerca per avvicinare il Sommo Poeta, e ripercorre il suo cammino di indagine e di scoperte:

«È difficile comprendere la forma grande, appunto perché è grande. L’incontro con essa può esser quindi solo il frutto di una lunga preparazione. Prima che si conceda bisogna a lungo spendersi per conquistarla (…) Parlo per esperienza personale e vorrei raccontare come ho trovato l’accesso alla Divina Commedia di Dante. Esattamente venticinque anni fa – ero ancora studente – uno dei miei professori mi chiese se avessi letto Dante, e poiché dovetti rispondere negativamente, mi disse sorridendo che studiare teologia, parlare italiano e non aver letto Dante, era quasi un peccato. Disse “quasi un peccato veniale”, poiché era insegnate di teologia morale e amava la precisione» (Guardini 1986, pp. 367-368).

Perciò, dopo alcuni anni, Guardini tenta un ulteriore approccio a Dante, e precisamente alla sua opera Vita Nuova ma, come racconta egli stesso, essa rimase serrata, come resta chiusa e inavvicinabile una persona finché non prende l’iniziativa lei stessa per aprirsi nella conversazione e nell’incontro. E proprio da un incontro personale, con la creazione di una nuova amicizia, Guardini comprende che questa è veramente l’esperienza della “vita nuova”, anche se i due livelli sono diversi:

«Ma la fecondità della conoscenza dipende in buona parte dal fatto che, attraverso la somiglianza qualitativa, si impara a trovare l’accesso ad un fenomeno maggiore movendo da uno minore. Ormai sapevo una cosa: che l’evento interiore della Vita Nuova corrisponde a un’esatta verità e che la Divina Commedia di Dante rimane impenetrabile finché non si è compresa l’anima vitale della sua opera giovanile. Ma francamente non giunsi ancora al capolavoro» (Guardini 1986, pp. 368-369).

Ma anche dinanzi all’apparente blocco dell’approccio a Dante, Guardini avanza imparando, e accumula a poco a poco esperienze di cui fa “scorta”. In un crescendo di studi e comprensione, il teologo tedesco scopre e apprende meglio che cosa sono conoscenza e luce spirituale e come esse sono presenti in Platone, Agostino e Plotino e, infine, nella dottrina cristiana della trasfigurazione:

«Prima di tutto imparai che cosa significhi per il Medioevo conoscenza: non ricerca nel senso moderno, ma contemplativa penetrazione del mondo e costruzione dell’immagine dell’esistenza. Poi, che cosa significhi il concetto, più esattamente, il fenomeno della luce spirituale, quale emerge da una determinata esperienza intellettuale e contemplativa. Questa intuizione rimase dapprima teorica; ma intuivo che doveva esserci dell’altro, finché, circa quindici anni dopo, andai in Engadina e notai la sua luce (…) la dolce luce ottobrina dell’Allgäu e poi ancora quell’oro caldo che dalle colline del Veneto è defluito nei quadri di Tiziano. Ad ogni modo compresi allora qualcosa di Platone che non si trova in alcun libro, tranne che nei suoi propri; ma anche in essi lo si nota solo dopo aver visto la chiara luce di cui parlo e il cuore ne è rimasto sopraffatto – ciò che nel cuore è al tempo stesso la parte più intima dello spirito. Compresi pure qualcosa di Plotino e di Agostino, poiché quella chiarità vive anche in essi, sebbene in modo diverso. E quando vidi come una simile luce si posava attorno agli alberi, alle foglie, ai rami, alle loro forme; come trasfigurava i monti nel tardo pomeriggio, quando tutto cambia, allora ho presentito quale affinità ci sta tra la luce e la dottrina della trasfigurazione» (Guardini 1986, p. 369).

La difficoltà di concepire la realtà dipende proprio dall’approccio che uno ha nei suoi confronti, per cui ci sono autori che partono dal particolare per arrivare all’universale e viceversa:

«C’è chi muove dalla realtà concreta e penetra a grado a grado nell’universale. Altri devono seguire la direzione opposta, e a questi io appartengo. Soltanto nel corso di molti anni ho potuto arrivare dalle idee alle cose, all’uomo concreto, alla storia; ma certamente tutto questo fu allora raggiunto in una profondità particolare. Finché finalmente ho scoperto la meraviglia del reale di fatto: di ciò per cui non esiste motivo per cui debba essere, ma che è, e si afferma davanti alla possibilità sempre incombente di potere non essere. E bisognava inoltre vedere come in tale realtà là esistente, che è “fortuita” – ma l’espressione è profana; si deve dire: che è “dono”, che è “data” dalla libera munificenza del Dio vivente – può irradiare l’autentico. Non al di sopra, non al di fuori di essa, ma in essa» (Guardini 1986, p. 370).

Un altro elemento importante è la lettura del saggio di Erich Auerbach dal titolo “eccitante”, Dante Dichter der irdischen Welt (1929)[7], il contenuto del quale fu, per Guardini, superiore alle aspettative:

«Dante vi era designato come il poeta cristiano nel senso più profondo. Si intendeva per “cristiano” una mentalità che non identifica il concreto con il puramente empirico, ma lo vincola all’Assoluto-Eterno; e, d’altro canto, non risolve l’esistenza nell’ideale, ma la conserva nella storia. Presupposto a tutto ciò è l’Incarnazione di Dio; e ciò che decide della qualità cristiana di un pensiero è che esso accolga in sé questo fatto – veramente factum, insieme azione e verità – come sua norma. Allora mi apparve chiaro come Dante sia il poeta che porta nell’eterno l’uomo, il mondo, la storia, l’esistenza tutta, ma senza che la forma finita venga dissolta. Essa si trasforma, ma rimane conservata» (Guardini 1986, pp. 370-371).

E nonostante si aprisse una porta sull’opera di Dante, Guardini è ancora distante e resta sulla soglia, incapace di entrare, «poiché si trattava di aldilà, di un altro mondo, della sfera santa dell’aperta presenza di Dio! Questa sfera non voleva rivelarsi; proprio la concreta densità delle forme lo impediva» (Guardini 1986, p. 371).

Poi, finalmente, la fatica guardiniana si trasforma in sacra ispirazione, e una nuova lettura lo porta nel cuore del poema dantesco attraverso un’intuizione decisiva:

«Poi un giorno lessi che il pellegrino è pieno di angoscia nel bosco senza uscita; che vuol salire sul monte illuminato da tutte le speranze, ma non può perché la selva lo trattiene. Gli animali infernali lo aggrediscono, la lupa della cupidigia di qui a un attimo gli sarà alla gola, ma tutto questo non accade! La fiera si lancia e non arriva alla preda, e l’orrore è proprio qui. Dove è possibile? mi domandavo. Nel sogno! Là ogni cosa è ciò che è, eppure è diversa, afferrabile eppure arcana e straniero! Ma poi il pensiero corse avanti: No non è il sogno, ma la visione!» (Guardini 1986, p. 371).

Guardini scopre così che la visione è una chiave di interpretazione della Comedia di cui non si può fare a meno: «Era la condizione previa, il punto da cui si doveva guardare, sentire: dal modo di vedere della visione. Le forme mantenevano tutti i loro contorni esatti, ma entravano nell’atmosfera di un altro stato. Tutto era chiaro, eppure apparteneva all’aldilà» (Guardini 1986, p. 371).

Questa premessa psicologica, grazie alle conversazioni piene entusiasmo con un’altra persona che viveva tutta per Dante, diventa in Guardini un principio per la comprensione dell’opera: «Dante dice: ho visto. Questa parola è impegnativa. Il suo poema deve essere considerato come contemplato, come una immagine visionaria che nasce da una immensa esperienza» (Guardini 1986, p. 372).

Ed è proprio qui, a conclusione di questo percorso di ricerca, accompagnato da esperienze euristiche ma anche di serendipità, che Guardini arriva al punto chiave di una comprensione viva di Dante e, al tempo stesso, aperta a una ricchezza interpretativa sempre più profonda: «Allora si unirono tutti i fattori in attesa, accumulati nel corso di tanti anni. La tonalità particolare della persona di cui ho detto, il fenomeno della luce alta, la concretezza terrena conservata nell’Assoluto e il libro di Auerbach, l’elemento visionario come presupposto psicologico e oggettivo: tutti questi elementi entrarono in sintesi» (Guardini 1986, p. 372).

Ma non basta. Guardini unisce a tutto ciò anche un’ulteriore esperienza, di origine artistica e contemplativa, acquisita dinanzi all’altare di Isenheim del Grünewald, che gli mostra quanto l’esperienza profondamente religiosa può diventare azione creativa, anche storica e politica, come si è manifestata per esempio nella vita dei santi, e cioè l’idea

«della natura propria dell’arte che nasce dall’esperienza mistica. Di riscontro l’idea che l’esperienza religiosa più pura può sfociare nell’azione storica, anzi politica: in un Bernardo di Chiaravalle e in modo ancora più straordinario in una Caterina da Siena. Il mistero di quell’amore che è nello stesso tempo luce e ardore, in modo che il cuore è spirito e lo spirito pulsa nel sangue: in Francesco d’Assisi esistenza viva, in Agostino pensiero possente, in Pascal esperienza dei valori in una coscienza critica, philosophia e theologia cordis. E altro ancora» (Guardini 1986, p. 372).

Come accenna Guardini, e come osservano anche altri commentatori tra cui Oreste Tolone, Vita Nuova «costituisce il preambolo alla Divina Commedia e questo non solo da un punto di vista storico (…) ma anche e soprattutto dal punto di vista umano» (Guardini 2012, p. 80).

In quest’opera, che è un resoconto in prosa intercalato da una serie di poesie e ispirato al suo rapporto con Beatrice, Dante trova motivazione e ispirazione, come afferma egli stesso, lasciando intravedere il desiderio di realizzare qualcosa di più grande e “visionario”: «Appresso questo sonetto apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io non potesse più degnamente trattar di lei»; e al silenzio al quale si consacra Dante, aggiunge una preghiera a Dio di offrirgli ancora tanti anni per poter dire di lei «quello che mai non fue detto d’alcuna» (Vita Nuova, XLII 1-2).

«Queste parole – scrive Tolone – dicono che il suo rapporto con Beatrice, nato dalla prima esperienza giovanile, (…) viene determinato adesso da una nuova esperienza, una “mirabile visione”. (…) Qui risiede, evidentemente la radice della Divina Commedia» (Guardini 2012, p. 88).

  1. Dal viaggio alla visione

Cerchiamo ora di entrare nel senso più profondo della Comedia, che, come è noto, è figlia di una grande visione e di un grande viaggio. Che cos’è un viaggio? L’Enciclopedia filosofica scrive:

«Movimento attraverso lo spazio e il tempo, il viaggio è sempre un «passaggio» in se stessi oltre che nei luoghi di transito e visitati. Esso implica lo spostamento, l’erranza, l’esperienza dell’inizio e della fine, il significato della meta e il senso della conoscenza. Viaggio, dunque, dell’io con se stesso e al di là di se stesso; viaggio nella e della conoscenza; viaggio, ancora, come partenza, arrivo, ritorno, quale via, cammino e percorso, come caso o progetto, nomadismo o direzione, peregrinazione o ricerca. In esso risiedono la possibilità dell’incontro, l’avventura dello scambio culturale, le contaminazioni dei saperi, delle culture, delle idee. L’idea del viaggio trasforma l’individuo in un uomo che possiede la “libertà della ragione” e, con essa, si sente – come ha osservato Nietzsche – “nient’altro che un viandante, non un viaggiatore diretto a una meta finale”» (Gennari 2006, vol. XII, p. 12109).

Per comprendere il significato del viaggio ci aiuta José Saramago – premio Nobel per la letteratura 1998 – che, alla fine del suo libro Viaggio in Portogallo, scrive:

Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione. Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto: “Non c’è altro da vedere”, sapeva che non era vero. La fine di un viaggio è solo l’inizio di un altro. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si è visto in estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha cambiato posto, l’ombra che non c’era. Bisogna ritornare sui passi già fatti, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre. Il viaggiatore ritorna subito (Saramago 1999, p. 457).

Con saggezza e profondità, lo scrittore portoghese spiega che «il viaggio non finisce mai», sia perché c’è sempre qualcosa da vedere sia perché si può tornare a vedere ciò che si è visto in modi e tempi diversi e forse anche con occhi e modi nuovi. E non è forse il viaggio la metafora della vita? La vita è un viaggio. Partire, viaggiare, tornare indietro, ripartire. Tornare sui propri passi e aprire nuovi cammini. Ci sovviene la canzone di Francesco De Gregori Viaggi e Miraggi: «Dietro a un miraggio c’è sempre un miraggio da considerare / Come del resto alla fine di un viaggio / c’è sempre un viaggio da ricominciare». Ma se il miraggio non è un miraggio ma una visione, che cosa accade?

Viaggio e visione sono simboli di rigenerazione e anche di conversione (“archetipi” nel linguaggio di Jung). Il viaggio, infatti, non è solo conoscenza di realtà esterne (luoghi, culture, lingue diverse), ma anche un percorso di conoscenza di sé. Il viaggio è, infatti, anche un fenomeno psicologico e, nelle sue fasi (partenza, percorso e arrivo) rende l’idea della ciclicità della vita e del suo dinamismo. Esso è, perciò, un’esperienza interiore dell’individuo che richiama la circolarità della vita: la nascita, l’adolescenza, la fase adulta e la morte.

Anche leggere è viaggiare. Chi legge i grandi della letteratura sa che le loro opere sono come oasi alle quali abbeverarsi nel deserto delle prove della vita, a cui si può tornare ogni volta, per ripartire ricaricati e arricchiti, ma anche cambiati e rinnovati. Ciò accade anche in Dante e nel suo capolavoro che, tra le sue caratteristiche fondamentali ha quella di osare accostare l’uomo a Dio, l’umanità alla Trinità, in un’esperienza incredibile di comunione profonda.

Il teologo svizzero Hans Urs von Balthasar ha analizzato la Comedia nel suo significato di immagine del mondo, che si pone sul crinale fra la cosmologia antica e medioevale e la nuova coscienza che l’uomo assume di sé, del proprio destino, della storia. Centro della meditazione, è l’interpretazione dell’eros di Dante, del suo amore per Beatrice che, assunto in tutte le sue conseguenze spirituali, travalica i confini dell’umano e immerge il poeta con la sua personalità nel mondo della comunione dell’uomo con la Trinità cristiana (cfr. Balthasar, 1973).

Universalmente considerata espressione della cultura medievale e cristiana, filtrata attraverso la lirica del Dolce stil novo, la Comedia è strumento allegorico della salvezza umana, che si concreta nel toccare i drammi dei dannati, le pene del purgatorio e le glorie celesti, permettendo a Dante di offrire al lettore uno spaccato di morale. Per fare questo l’autore utilizza la parabola del viaggio, già utilizzata dai grandi del passato in opere epiche (Iliade, Odissea, Eneide, ecc.). Fin dall’antichità l’uomo ha avvertito questo bisogno del “viaggio”, simbolo della ricerca di verità, di spiritualità, di immortalità, di avventura, di benessere e pace. Da Ulisse a Enea, ai fantastici viaggi di Gulliver, alle peregrinazioni del popolo Ebreo, alla ricerca del Graal, molti sono gli esempi in letteratura, nella storia, ma anche nella vita di ogni giorno, dell’istinto che nell’uomo volge verso l’ignoto, strappandolo alle certezze e agli affetti. Ma qui il viaggio assume un carattere esistenziale e Dante scava nelle profondità dell’esperienza umana e nel mistero dell’oltretomba, affrontando la discesa nelle viscere della terra; poi sale su un monte, infine attraversa le diverse sfere celesti fino all’Empireo, una regione che non può essere rappresentata con categorie cosmologiche, uno “spazio vuoto”, termine del percorso, dove si raggiunge un completo appagamento:

«Così l’Empireo è nulla e tuttavia è qualcosa, è l’irrealizzabile realtà del limite, del delimitato, oltre il quale non c’è nulla. Allo stesso tempo ha carattere religioso: è luogo di Dio, assoluta trascendenza e cioè punto di partenza delle energie divine rivolte verso la terra. Dall’altro lato è il punto d’arrivo del movimento creaturale di ritorno, luogo della perfezione e della beatitudine, il cielo vero» (Guardini 2012, p. 132).

Il poema comincia con Dante che si trova in un’orrida selva, ai piedi di un monte inondato dal pieno splendore di luce. Dal punto di vista umano si parte da una situazione di pieno smarrimento: l’uomo Dante riconosce di essersi sperso e non trova alcuna via d’uscita. A quel punto appare la figura di Virgilio poeta il quale riferisce che ad averlo mandato è stata Beatrice, avvertita da Maria Vergine in persona. Virgilio lo conduce all’inferno, dove egli incontra i diversi stadi del male, soprattutto quello insidioso e pervicace che si è impadronito dei sentimenti più intimi e che perciò non viene più perdonato. È lì dove Lucifero, l’angelo caduto tradendo la fiducia e le leggi di Dio, diventa satana ed è imprigionato nel ghiaccio della disperazione. Dal corpo di Satana in poi il cammino si svolge nella direzione opposta, attraverso un cunicolo stretto e oscuro nelle profondità della terra per giungere dall’altro lato, fino all’aria aperta. Lì si trovano ai piedi di un monte, che si erge su un’isola, il Purgatorio. È questo il luogo della purificazione, sui cui gradini viene espiato quel male che sopravvive negli uomini, nonostante la loro volontà sia buona, e che perciò può essere perdonato. Man mano che si sale verso l’alto, la colpa si riduce progressivamente. Essi salgono fino in cima, o più esattamente su una pianura alta sul mare. Vi si trova un luogo pieno di bellezza, che era una volta il Paradiso terrestre, qui trasferito. Mentre Virgilio scompare, Dante incontra Beatrice che lo solleva di sfera in sfera – sono gradi di valore sempre maggiore – verso l’alto e verso l’esterno in una sorta di ekstasis, fino a raggiungere l’Empireo, luogo della trascendenza assoluta (cfr. Guardini 2012, pp. 133-134).

Il teologo tedesco evidenzia tre motivi che riguardano il carattere esistenziale del viaggio (cfr. Guardini 2012, pp. 136-141). Il primo è che Dante è coinvolto non come semplice spettatore che esplora o va in cerca di avventure, bensì come protagonista, totalmente coinvolto nella storia, e prende parte alla salvezza e alla dannazione: «Su cosa poggia tale partecipazione? Soprattutto sul motivo dominante che giace nella profondità dell’animo umano e che trova tanto nelle saghe e nelle fiabe, quanto nella psicologia dell’inconscio: ovvero che il senso ultimo della vita non può essere appreso dalla vita stessa, bensì solo a partire dal suo aldilà, dal mondo della morte» (Guardini 2012, p. 136)

Guardini allude alla tradizione medioevale, che narra di viaggi nell’oltretomba e altre apocalissi: per esempio, alla Leggenda di san Brandano, nella quale il monaco irlandese vaga per sette anni alla ricerca del Paradiso. Richiama Omero e la Nekyia (Odissea, XI), un rito attraverso il quale spettri o anime di defunti venivano richiamati sulla terra e interrogati sul futuro, che oggi definiremmo “negromantico”. Poi cita Virgilio e il viaggio agli inferi di Ulisse (Eneide, VI). E infine alla discesa di Faust alle Madri quando, nella seconda parte della tragedia, atto primo, Faust scende armato di una chiave magica nella Galleria Oscura, nel regno delle Madri, esseri misteriosi e solenni che custodiscono le essenze immutabili ed eterne delle cose. Ma Dante fa di più:

«Dante le fornisce la forma poetica più grandiosa. Alla base di tale idea risiede l’esperienza per cui l’uomo che vive sulla terra è imbrigliato nel desiderio, nell’angoscia, nell’amore e nell’odio, nel lavoro e nel possesso; egli è cieco e non vede la realtà, la sogna. Solo quando si risveglia dal sogno, e cioè nella morte, vede ciò che in verità è. Egli vede se stesso – si metta a confronto anche il motivo mitico dello spirito seguace [Folgegeist], che non è “l’anima” come noi la intendiamo, bensì ancora una volta l’uomo intero, ma nelle sua specificità. Questo spirito segue incessantemente l’uomo, così questi non è mai visibile a se stesso. In un determinato momento esso gli compare dinanzi, gli va incontro: allora l’uomo vede e incontra se stesso. Questa però è la morte. Solo dalla morte, dunque, l’uomo viene a sapere ciò che egli è» (Guardini 2012, pp. 136-137).

La morte diventa così la condizione veritativa e si fa rivelatrice della realtà umana che può essere intesa solo dall’esterno, dall’aldilà: «il mondo al di là della morte gli insegna la vita, il mondo dell’eternità gli insegna a comprendere il mondo temporale e a dominarlo» (Guardini 2012, p. 137).

Un secondo motivo, affine al primo, che il teologo tedesco ci offre è il seguente:

«In determinati momenti, nei quali l’uomo ha perso il giusto rapporto con se stesso, la via più breve verso questo sé passa per la distanza dal mondo. (…) Allora il vero tornare-a-sé della persona, avviene proprio tramite un atto di distacco da sé [Selblosigkheit], realizzato in una qualsiasi forma di abnegazione; per un lavoro, un uomo, un’idea; ossia l’uomo diventa tanto più perfetto, tanto meno egli pensa a sé» (Guardini 2012, p. 137).

Questa situazione spinge il nostro autore ad ampliare l’orizzonte anche sul terreno psicologico, attuando una profonda e lucida riflessione:

«La psicologia del sé [Selbersein] riposa sulla polarità tra il “lontano da sé” e il “tornare a sé”. Il semplice restare-presso-di-sé rattrappisce (Kleist, Il teatro delle marionette). L’allontanarsi, dunque, apre uno spazio in cui, per così dire, il sé può emergere liberamente dal fondo… D’altro canto però resta vero che il mero allontanarsi distrae. Quindi la riflessione ristabilisce la serietà del sé» (Guardini 2012, p. 138).

Il terzo e ultimo motivo risiede nella relazione particolare tra soggetto e oggetto, quest’ultimo inteso come specchio del sé, e la particolare corrispondenza uomo-mondo, per cui si afferma che l’essere umano è microcosmo:

«Il sé scorge e domina se stesso solo nell’oggetto. Per questo l’esperienza è inefficace come punto di partenza. “Vita” significa “vivere qualcosa”. Non è la vita che deve stare al centro, ma ciò di cui si vive; esattamente in ciò si realizza la vita stessa. Così anche tra il sé e il mondo esiste una singolare corrispondenza, espressa dall’antica idea di microcosmo. La “cosa” che sta all’esterno e il processo interno dell’esperienza, in cui l’esistenza soggettiva si realizza, sono in reciproca corrispondenza. Va poi aggiunto quel tratto che caratterizza l’univocità dell’uomo: che egli è quell’essenza che può essere interpretata attraverso tutte le cose così come tutte le cose possono essere interrogate e interpretate attraverso di lui» (Guardini 2012, p. 138).

Si intravede qui, sullo sfondo, la concezione antropologica aristotelico-tomista dell’anima quodammodo omnia (dell’anima e perciò dell’uomo, in certo modo misura di tutte le cose). Tutto ciò rinvia al simbolismo che sottende tutta la Comedia e che unisce, per esempio, il sole sopra di me a ciò che è solare in me, secondo la bella espressione poetica: «Se l’occhio non fosse solar / come potremmo vedere la luce?» (Goethe 1999, p. 14).

Il viaggio si attua all’inferno nel simbolismo della profondità, in Purgatorio nell’ascesa verso il monte, e in Paradiso, volando tra le sfere celesti, creazione di luce e di energia: «Il più profondo abisso del male giace al centro della terra e quindi al centro del mondo» (Guardini 2012, pp. 139), ma ai naturalisti ottimisti, che predicano la bontà umana, il Poeta ricorda che la corruzione non è un fatto esteriore: «Ho veduto che quanto più si va in profondità, verso il basso, e con maggiore insistenza, tanto maggiore diventa il male. Il male non raggiunge l’uomo dall’esterno, ma dall’interno» (ibid., p. 140).

Il monte del Purgatorio è costruito in base all’ordine del bene: dal basso verso l’alto. E riguardo ai temi della luce e dell’ekstasis, si intravede il forte influsso platonico che è anche immensa saggezza umana e fine psicologica: «La più profonda affermazione della filosofia platonica dice: ciò che mi è proprio è al di là di me. Per trovare me stesso devo sollevarmi oltre me stesso (ibid., p. 140)». Qui non si possono trovare soluzioni al modo del barone di Munchausen (che dichiarava di essersi tirato fuori da solo dalle sabbie mobili, prendendosi per i capelli), ma bisogna ricorrere alla grazia.

  1. L’elemento visionario nella Comedia

Il significato di “visione” va inserito in un percorso storico-concettuale della nostra civiltà occidentale che, secondo quanto afferma l’Enciclopedia filosofica, significa soprattutto

«interrogarsi sulle ragioni che hanno condotto ad affermare, ma di riflesso anche a negare, il primato della vista sugli altri sensi. A tale riguardo si è spesso insistito sull’esistenza di un autentico «paradigma ottico» che governerebbe l’intera tradizione gnoseologica occidentale, e alcuni hanno ipotizzato che all’interno dello stesso termine «filosofia» sarebbe testimoniata la centralità del riferimento alla «luce» e, di conseguenza, alla «vista» (in sophós, sapiente [da cui l’astratto sophía], risuonerebbe infatti, come nell’aggettivo saphés [chiaro, manifesto, evidente], il senso di pháos, la luce)» (Petrosino 2006, vol. XII, p. 12183).

È interessante qui citare un autore che ha lavorato in maniera proficua sul tema, evidenziando la relazione vitale tra vista e pensiero, basata sulla capacità di andare oltre, vedere lontano:

«Visione e udito sono i “media” per eccellenza per l’esercizio dell’intelligenza. La visione trova ausilio nel senso del tatto e nel senso muscolare, ma il senso del tatto da solo non può competere con la visione, principalmente perché non si tratta di un senso capace di ricevere informazioni a distanza (…). Pertanto la vista è il “medium” primario del pensiero» (Arnheim 1974, pp. 23-24).

Arricchiti da questi elementi, cerchiamo di riprendere il cammino intrapreso per individuare, sulla scia di Guardini, l’elemento visionario nella Comedia. Ci chiediamo: cos’è quella “selva oscura” in cui Dante si ritrova nel bel mezzo della sua vita? Seguiamo Fabio Ciardi che, in un recente saggio, ci conferma il percorso euristico e ascetico del viaggio e la mistica contemplativa che conduce Dante alla visione della Trinità, attraverso una serie di mediazioni umane, in particolare di una “trinità” tutta al femminile costituita dalla vergine Maria, santa Lucia (patrona della vista-luce) e Beatrice:

«Quante interpretazioni lungo la storia! Fino all’ultima, recentissima, che prende le mosse da un commento al Pentateuco redatto dal monaco alto-medievale, Bruno di Segni, che parla della difficoltà che ha incontrato nel commentare il libro dell’Esodo, superata grazie all’aiuto di Dio “che fino a qui mi ha guidato sulla via dritta, come credo, per questa selva oscura assai fitta”; una selva che definisce “aspra” e “amara”. Nella lettera XIII con la quale dedica a Cangrande della Scala la Cantica del Paradiso, Dante spiega il fine della sua Commedia. Esso consiste nell’allontanare quelli che vivono questa vita dallo stato di miseria e condurli a uno stato di felicità”. È l’itinerario, di Dante e dell’intera umanità, dalla miseria – la selva oscura – alla felicità: la dimora nella Trinità. Per questo chiama la sua opera “commedia”. A differenza della tragedia che “inizia dalla narrazione di situazioni difficili, ma la sua materia finisce bene”, la commedia “all’inizio essa è paurosa e fetida perché tratta dell’Inferno, ma ha una fine buona, desiderabile e gradita, perché tratta del Paradiso”. Sembra di ascoltare l’Itinerarium mentis in Deum di Bonaventura, che il poeta conosce bene. Dante, e con lui l’umanità, all’inizio della sua “commedia”, si trova dunque in una situazione di peccato, di buio, di decadenza morale e di errore, è incapace di uscirne perché la strada è sbarrata da “impedimento”. Ed ecco Maria, la “donna gentil”, che escogita un piano per salvare l’uomo. Un piano articolato, fatto di mediazioni: ella parla con Lucia, che a sua volta parla con Beatrice, che a sua volta parla con Virgilio, il quale si precipita nella selva oscura dalla quale trae Dante a salvezza “per lo cammino alto e silvestro” (Inferno II)» (Ciardi 2021, pp. 3-4; cfr. D’Onofrio, 2020).

Qual è l’interpretazione di Guardini dell’incipit della Comedia? Indagando il tema “Visione e occhio nella Divina Commedia” (Guardini 2012, pp. 161-165), egli propone la seguente idea:

«Noi dunque assumiamo la seguente ipotesi: Dante, in un momento di grave crisi personale, ha avuto un’esperienza visionaria. Gli vengono mostrate cose e insieme gli viene fornito l’organo per comprenderle. In tale esperienza gli è divenuto chiaro il senso dell’esistenza in generale e della sua in particolare, e ha preso una decisione personale in grado di determinare la sua vita futura. Ha conseguito il controllo etico-religioso della propria persona, grazie al quale Beatrice gli è stata restituita e gli si è svelato il suo mistero, già presagito nella Vita Nuova» (ibidem, pp. 161-162).

E qui il teologo tedesco arricchisce la sua esplorazione dell’itinerario dantesco con una ulteriore e densa riflessione, che accosta lo sguardo raggiante di Beatrice a quello accogliente del Poeta:

«Ciò a cui conducono gli eventi è il vagare di Dante, ma ancora di più il suo guardare. Spesso è come se nel suo occhio si concentrasse tutta la sua personalità – così come in Beatrice sguardo e sorriso rispondono sempre per l’intera persona. Nella polarità di queste due coppie di occhi si fonda, vorrei dire, lo spazio epico-visionario in cui si svolgono gli avvenimenti della Divina Commedia. L’occhio di Beatrice è l’occhio raggiante; in esso la visione nel suo lato di dono si concentra come rivelazione. L’occhio di Dante è recettivo, accogliente» (ibidem, p. 163).

Secondo Guardini l’occhio di Dante, purificato e accresciuto in potenza dalla luce degli oggetti e delle persone che gli vengono incontro, è il vero protagonista del Poema:

«La storia interiore della Divina Commedia è in buona parte la storia dell’occhio di Dante. L’andamento è sempre questo: qualcosa gli si fa incontro. Dante guarda ma non riesce, o non può vederlo poiché il suo occhio non ne è ancora capace. Di conseguenza o gli viene accordata una tregua, oppure da ciò che gli si fa incontro prorompe una luce. Grazie a essa l’occhio diventa di una potenza superiore, e vede. L’occhio cresce con l’oggetto, si costituisce in esso… Attraverso la potenza che proviene dall’oggetto della rivelazione, l’occhio giunge a una superiore corrispondenza con la situazione. È questo lo schema degli eventi. Essi si presentano con una tale autenticità, così totalmente privi di strappi e di violenza, che si ammette volentieri che non siano né teoreticamente costruiti né esteticamente immaginati, bensì che alla base ci sia una prima esperienza» (ibidem, p. 163).

Quest’ultima considerazione ci fa pensare a un’esperienza originaria che si gusta, per esempio, in alcuni versi chiave dei canti finali del Paradiso (XXX, 46-60; XXXIII,109-114), in cui si fa riferimento alla memoria di quanto visto, che Guardini commenta così:

«A favore dell’autenticità della visione sembra far propender il modo in cui la memoria, l’“alta mente” o “l’alta fantasia”, si rammenta del veduto. Io non so se si possa continuare a costruire con una tale naturalezza il processo del ricordarsi, a partire dalla semplice figurazione poetica. (…) Il poema è al termine. A Dante è stato concesso di vedere l’Altissimo (Par., XXXIII, 55-63), il mistero della vita una e trina di Dio» (ibid., pp. 163-164).

Secondo Guardini viaggio e visione vanno a braccetto nel percorso dantesco come conferma, icasticamente, alla fine dei suoi appunti di “Introduzione a un corso su Dante” (Guardini 2012, pp. 557-563): «Carattere del viaggio: visione» (ibid., p. 563). E, sintetizzando i motivi inconsci di questo viaggio, evidenzia il percorso psico-antropologico di conoscenza del sé che passa, paradossalmente da una chiara e volontaria presa di distanza da sé:

«In primo luogo l’idea antica di guadagnare la suprema conoscenza di ciò che è terreno, partendo non dal terreno, ma dall’aldilà…. Ulisse, Enea, Faust. Oltre a ciò il principio inconsciamente all’opera: che la via verso il prossimo, vale a dire verso il proprio sé, sia la più distante [qui Guardini aggiunge una chiarificatrice nota a margine: ha bisogno della massima distanza])» (ibid., p. 562).

Un’ulteriore conferma e approfondimento lo troviamo nel saggio L’elemento visionario nella “Divina Commedia” (Guardini 1986, pp. 135-169). Qui ritorna l’idea che il viaggio segna l’inizio di una vita nuova, resa possibile dall’incontro col mondo dell’oltretomba (dai classici di Omero e Virgilio al Faust di Goethe) e ha una sua ragione, non solo nella dimensione arcaica e, oseremmo dire archetipica, ma anche in quella della più recente psicologia dell’inconscio:

«Il motivo indica che i morti sanno sulla vita più cose che non i vivi e che perciò l’uomo, in momenti decisivi, non può trovare in sé le direttive necessarie, ma le deve cercare oltre se stesso. Questo pensiero trova una conferma scientifica. La psicologia dell’inconscio dice infatti che il campo della vita immediata, dell’esistenza consapevole, non può, in certe crisi, essere compreso e dominato dall’esterno, ma solo se l’uomo discende nel fondo del cosmo della sua personalità, nell’inconscio, dove vien a conoscere le radici dei suoi conflitti, gli abbozzi preliminari delle sue possibilità di vita» (ibidem, p. 137).

Se dunque ciò che Dante apprende è saggezza proveniente dall’oltretomba che illumina il suo cammino, la sua esistenza e l’ordinamento del mondo, qual è il modo di guardare, accompagnare e di impegnarsi che richiede il poeta da chi lo ascolta o lo legge? Ciò presuppone la visione greco-romana dell’oltretomba, cara a Dante, che vi vedeva «qualcosa di dato e di colmo di senso, come nella natura, una specie di natura di secondo grado» (ibid., p. 138). Non ci soffermiamo sull’Odissea, che Guardini riprende e analizza sul profilo della “vittoria” degli dei olimpici sulle divinità sotterranee, spezzando l’incantesimo del mondo inferiore fino allora dominante (cfr. ibid., pp. 138-143). Ci chiediamo invece, seguendo Guardini: «Ma come è possibile, allora, che per il lettore si renda presente “l’aldilà”? (…) Di regola non pare ci si accorga che qui sta uno dei presupposti per la realizzazione dell’opera dantesca» (ibid., p. 144). Non si tratta, infatti, di un cammino nel “qui”, sulla terra, magari un po’ più straordinario e fantastico, come vorrebbero alcuni interpreti; ma si tratta di nuove strutture e figurazioni che il Poeta esprime con simboli (per esempio il sole, simbolo della vita) e sogni: «In sogno. Là una cosa è insieme reale e apparente, accade e non accade» (ibid., p. 145); «Ma chi sogna è in accordo con ciò che là, dall’intima essenza delle cose, gli parla» (ibid., p. 146). Ma non è sufficiente dire che la condizione espressa dal Poeta sia quella del sogno. Esso è troppo breve e sembra assurdo per Guardini che «il contenuto di un grandioso poema possa dirsi costituito da sogni. Esiste un altro modo di esperimentare vitalmente e di guardare, che con il sogno condivide la possibilità di disporre liberamente della materia della realtà, ma che ha un peso significativo superiore al sogno, ed è la visione» (ibid., pp. 146-147). E dopo aver citato la finale di Vita Nuova (XLII), con la mirabile visione di Beatrice, Guardini rilancia la sua ipotesi interpretativa:

«Ma io credo che si può giungere a una comprensione più profonda, se si ammette che Dante abbia avuto una esperienza visionaria, in cui gli si è dischiusa l’essenza del mondo, il senso della storia e della sua esistenza personale. (…) Comunque si voglia considerare questa ipotesi, il lettore deve in ogni caso pensare che tutto ciò che appare nel poema è contemplato attraverso una visione. Ovunque la forma è terrena, ma essa si trova in una condizione disposta ad accogliere un processo più profondo, affinché questo possa esprimersi in essa» (ibid., pp. 147-148).

Il potere visionario e il suo modo di operare si evidenza nella descrizione della “rosa mistica”, in cui ha termine il viaggio di Dante (Par. XXX, 38-126; XXXI, 1-26). Guardini scrive:

«Ed ora ha inizio un processo visionario della massima intensità. Il tema della Divina Commedia consiste nel racconto di una peregrinazione, che però ha luogo nella visione. Questa, a sua volta, non consiste in un vedere puramente oggettivo, ma in un essere afferrati dalla potenza significativa di ciò che si vede, in un aprirsi dello spirito, in una trasformazione della personalità in virtù dell’oggetto della sua contemplazione. Ma chi guarda vede cose che stanno al di sopra di lui, e non solo secondo una differenza di grado, ma assolutamente, poiché costituiscono il mondo di ciò che è eternamente compiuto. Egli perciò non le può cogliere con i suoi organi naturali, ma ha bisogno di essere illuminato» (ibid., p. 153).

Il processo interiore della Comedia è, come abbiamo già visto, lo stesso evolversi dell’occhio di Dante, un occhio che spesso viene meno «per la forza prepotente dell’oggetto che gli si fa incontro ma da cui poi riceve una superiore energia visiva» (ibid., p. 154). Ciò accade in particolare dinanzi ai fiumi di luce, faville vive, gemme, api (Par. XXX, 61-69). Perciò il fatto che spesso Dante non comprenda non ha solo un senso negativo, ma rinvia alla realtà nascosta che si cela dietro le apparenze o le prime immagini colte dal primo sguardo. Guardini scrive:

«Il fatto risulta straordinariamente vivo dalla psicologia della esperienza visionaria. In essa avviene talvolta che, quando una prima immagine appare, chi guarda la trova all’inizio chiusa e incomprensibile, pur presentendo in essa qualche altra cosa. Poi questa prima immagine si sviluppa o si trasforma e direttamente o in una serie di immagini, rivela la realtà autentica» (ibid., p. 155).

Torniamo alla visione della rosa e cerchiamo di capirne il simbolismo e penetrarne il significato, seguendo il commento guardiniano:

«La rosa è straordinariamente grande. Nel Convivio (IV 8, 7), Dante dice che il diametro del sole è di 35.750 miglia, ma la circonferenza del lago luminoso “sarebbe al sol troppo larga cintura” (Par. XXX, 103-105). I petali si espandono verso tutti i lati, in altezza e in larghezza, formando un quadro inconcepibilmente grande, in cui lo sguardo si smarrisce. Ma Dante dice: la rosa è al di là dello spazio e del tempo, in pura presenzialità. In essa non esiste lontananza, ma in ogni punto tutto è visibile in egual modo. Forse potremmo dire secondo la sua ultima intenzione: in ogni punto della rosa sono presenti tutta la sua forma e tutta la pienezza del suo contenuto. Quelle che prima sembravano faville volanti, vive gemme, api sciamanti, appaiono ora nella loro vera realtà» (ibid., p. 157).

Si tratta della «milizia santa», la schiera dei beati lavati nel sangue dell’Agnello, e degli angeli in volo (le api) che si inabissano nel lago di luce, al centro della rosa, e la diffondono sui beati, segno di una comunità d’amore e di vita che si espande in ogni senso (Par. XXXI, 1-27). Guardini spiega:

«Sintetizziamo. Si tratta di un simbolo che esprime una molteplicità riunita in un ordine armonico. La rosa contiene l’esistenza umana con le sue varie personalità e i suoi atti, che ha raggiunto la forma eterna. È la creazione ritornata a Dio e integrata nella comunione con Lui. La figura del fiore sta a indicare che il carattere dell’essere perfetto è bellezza, un sacro fruire al di là di ogni attività e utilità» (ibid., p. 157).

Dante vede/riconosce, nel lago di luce al centro della rosa, il riflesso della luce di Dio e il compimento la realtà terrena (Par. XXX, 106-107) e Guardini commenta così:

«I raggi della luce divina che dall’Empireo penetrano nel mondo, operandovi tutto ciò che ha valore e significato, vi si riflettono dalla superficie dell’ultima sfera, ossia dall’estremo margine del mondo si proiettano verso il libero spazio. Questo riflesso è il lago: la divina potenza di luce e d’amore che ha compiuta la sua opera nel mondo e che, mediante gli atti spirituali delle creature, ritorna con l’apporto di quanto è stato operato nel mondo» (ibid., p. 158).

Ma c’è di più. Dante esce dalla sfera del mondo e si arresta presso il lago di luce nel quale confluisce la sorgente di raggi divini: l’Empireo. Qui esso appare come «spazio sovraspaziale, che circonda il mondo; i suoi raggi penetrano quindi in questo come un manto da ogni parte. Ne consegue che la rosa fiorisce ovunque sulla superficie del mondo, e ognuno la può scorgere dal punto di vista in cui s’affaccia, nel luogo in cui si trova» (ibid., p. 160).

Si realizza così un altro momento visionario nel senso più alto del termine: il corteo dei beati che si muove dalle sfere verso l’Empireo (Par. XXXIII). Dante è salito dagli estremi confini del mondo nell’assoluta trascendenza dell’Empireo. Le parole di Beatrice lo accompagnano e lo trasformano, creando in lui un nuovo sguardo. All’inizio egli contempla il fiume celeste e le faville volanti, poi,

«all’ordine della sua guida, i suoi occhi bevono la luce dal fiume e la rosa che fiorisce dalla periferia del mondo verso l’Empireo appare là dove egli si trova. Per usare la terminologia del Medioevo, egli è passato attraverso la “purificazione” e l’“illuminazione”; ora è pronto per l’“unione” e può così scorgere nella semplicità della luce divina la rosa, sintesi della creazione e della storia. In questa stessa luce egli si conquista il senso della sua vita e vince la perdizione di cui aveva palato all’inizio del poema. Dante riconosce come l’esistenza deve essere edificata secondo la volontà del Creatore e riceve l’incarico di darne testimonianza» (ibid., pp. 160-161).

Da questo lungo e ricco percorso, si evince il senso della Comedia che si sprigiona da un’estrema profondità creatrice. In essa tutto è diretto al suo “fine” (finis, nel senso medioevale del termine), cioè alla sua meta essenziale. Qui ogni esistente raggiunge il suo compimento e Dante, con la sua opera, è «uno dei primi laici cristiani creativi» (ibid., p. 117), costruttore di un mondo ordinato e giusto, ispirato a Dio e al suo volere, come ricorda Guardini nel saggio “L’angelo nella Divina Commedia”:

«L’opera di Dante, come le cattedrali del Medioevo e le somme dei filosofi scolastici, si prefigge il gigantesco compito di costruire quel mondo strutturato, in cui la ricchezza dell’esistenza perviene all’unità. Essa vuole trovare un ordine in cui ogni cosa abbia il proprio posto, vuole fondare un dominio santo in cui ogni essere riposi sul significato, ogni forza sul diritto e ogni obbedienza conduca alla libertà, precisamente una “gerarchia” (“sacro dominio”), la quale secondo la definizione di San Bonaventura, significa che il singolo ha in sé il proprio significato, ma insieme esiste per gli altri; che ogni cosa si fonda sulla precedente e insieme fonda la seguente, e che, esprimendo se stessa, manifesta insieme il Tutto» (Guardini 2012, p. 116).

Ma la descrizione dell’ordine dell’universo e l’anelito alla perfezione fissato nell’uomo fin dalla creazione, non sono gli unici elementi del percorso. La Comedia infatti, illustra l’itinerario che Dante intraprende per superare lo stato di disordine iniziale e di smarrimento «per ritrovare la incarnazione del sublime, Beatrice. Entrambi i significati sfociano nella rosa celeste, che rappresenta così l’espressione del finis raggiunto, tanto per il macrocosmo universale come per il microcosmo dell’uomo Dante» (ibid., p. 161).

Sembra quasi paradossale che il Sommo Poeta, avvezzo alla realtà storica e alla politica, preferisca l’immagine del fiore a quello della città celeste, luogo di arrivo e compimento dell’Apocalisse. Forse Dante l’ha preferita per esprimere il suo ideale di bellezza, compimento del divino nella gratuità e sublimità del dono, in una dimensione cosmica: «Quanto la figura di Beatrice esprime, cioè che la potenza massima non sta nella grandezza dei risultati, ma nel puro dono, nel sorriso della donna amante e beata, si traduce in dimensione cosmica attraverso la rosa» (ibid., p. 163).

  1. Il fiore d’oro e la rosa

Nel mondo d’oggi il tema del fiore e della rosa rischia di avere solo valore storico ed estetico. Perciò, per dar solidità al suo discorso, Guardini cita un importante libro cinese, Il segreto del fiore d’oro (Tung-Pin,1993)[8], e propone un breve confronto con il libro di Carl Gustav Jung, Commento al “Segreto del fiore d’oro” (Jung, 1957). A tal proposito, egli scrive:

«Jung vi fissa il compito dello sforzo umano nella realizzazione del “sé”. L’individuo deve divenire ciò che sta già inserito nel suo essere conscio ma anche inconscio, nella sua individualità, ma anche nei rapporti, in essa culminanti, della specie, della vita, del mondo in genere. Egli deve creare un cosmo individuale, controfigura di quello universale, il che non può avvenire senza sforzi e superamenti. Egli ha bisogno perciò di una immagine che illumini il suo spirito, ma che sia da lui sentita nell’intimo come a lui pertinente, perché abbracciante la molteplicità dell’esistenza in un ordine autentico» (Guardini 2012, p. 164).

Il segreto del fiore d’oro è un libro sulla meditazione e l’alchimia cinese, tra buddismo e taoismo, tradotto dal sinologo Richard Wilhelm e commentato da Carl G. Jung[9]. Allude a una metafora secondo la quale ognuno di noi è obbligato a svegliarsi, a “sbocciare” come un fiore, per aprire la propria coscienza verso la luce. Nell’introduzione scritta da Thomas Clearly si legge:

«L’esperienza dello sbocciare del fiore d’oro è paragonata all’illuminarsi del cielo, il cielo di una consapevolezza che trascende le immagini, i pensieri e i sentimenti, uno spazio sconfinato che contiene tutto senza essere pieno. Essa apre in tal modo un canale a una sorgente senza fine di intuizione, creatività e ispirazione. Una volta che un tale potere di risveglio mentale sia stato sviluppato, lo si può intensificare e rigenerare illimitatamente» (Tung-Pin, 1993).

Si può apprendere il segreto in tutta la sua semplicità. Volgere la luce all’interno è un insegnamento fondamentale e imprescindibile di ogni iniziazione spirituale. Guardini ricorda che nella storia dello spirito e delle religioni più volte appaiono immagini che, contemplate, aiutano l’individuo a realizzare il proprio essere: «In quanto alla forma, di regola queste immagini integrative si fondano sul cerchio, dove la circonferenza esprime l’elemento che contiene e frena le forze, mentre il centro significa l’integrità creatrice» (Guardini 1986, p. 165). Ciò accade soprattutto in Oriente, dove l’immagine emergente è quella del mandala (cerchio, cerchio magico), ma forme di questa specie si trovano anche in Occidente, «evidenti soprattutto nei rosoni dei cori delle cattedrali gotiche (…) affiorano anche spontaneamente nei sogni o nelle fantasie del dormi-veglia» (Guardini 2012, pp. 164-165).

Se confrontiamo le immagini del “fiore d’oro” e della “rosa” scopriamo stupefacenti analogie. Per esempio, nel Paradiso dantesco, la rosa è fatta di luce gialla: «Nel giallo della rosa sempiterna» (Par. XXX, 124). Dal canto suo, Jung riferisce che il fiore cinese appare come oro luminoso: «Il fiore d’oro è un simbolo del mandala, che ho spesso incontrato presso i miei pazienti» (Jung, 1957).

E nell’Introduzione scrive che, pur non conoscendo né il cinese né la filosofia orientale, vi è entrato in contatto in modo empirico attraverso i suoi pazienti: «L’esperienza pratica mi ha aperto una nuova e inaspettata via di accesso alla saggezza orientale» scoprendo «che il suo contenuto – è questa la cosa straordinaria – forma al tempo stesso un vivissimo parallelo con ciò che accade nello sviluppo psichico dei miei pazienti, i quali non sono cinesi» (Jung, 1957).

Nella prefazione alla seconda edizione (1938) Jung ricorda l’importanza di questo testo per i suoi studi seguenti, confluiti anche in altri saggi[10]. E non dimentichiamo la sua rilevante e originale introduzione al libro I Ching. Il Libro dei Mutamenti, uno dei più importanti testi della tradizione letteraria cinese, “una sorgente d’acqua viva”, che fu la principale fonte di ispirazione di uomini della statura di Confucio e Lao-tse. Egli lo presenta come un libro vivente, che può essere interrogato come un oracolo e che offre soluzioni a chi sa ascoltare, senza pregiudizi (scevri dal “principio di causalità” che condiziona il lettore occidentale), lasciandosi coinvolgere, con semplicità, in prima persona.

Il confronto non facile tra Oriente e Occidente, spesso pieno di incomprensioni e fraintendimenti, si fa così più vicino a noi tramite Jung, che, pur non essendo un esperto in senso tecnico, ha lavorato sul tema, mostrando affinità e analogie che, in certi casi, vanno oltre ogni previsione. Guardini scrive:

«Quando l’orientale si accinge a meditare prende in mano la sua immagine mandala e si immerge nei suoi particolari e nei suoi contesti; in tal modo il suo spirito si apre ad accogliere la verità. Ma anche l’occidentale, dice Jung, pur senza conoscerne il contesto teoretico, quando si offrono alla sua contemplazione tali immagini, esperisce una liberazione e una unificazione dell’essere» (Guardini 1986, p. 166).

Per comprendere meglio il significato simbolico della rosa, si può leggere Il libro dei simboli. Riflessioni sulle immagini archetipiche (Martin 2011, pp. 162-165) dove si scopre l’antico retaggio del delicato e spinoso fiore, angelico e seducente:

«Per almeno sei millenni, i suoi antenati selvatici a cinque petali, e le migliaia di discendenti coltivati, hanno deliziato gli occhi, quietato l’animo e presenziato a una miriade di eventi e di riti della storia dell’uomo. Amate sia dai potenti che dagli umili, le rose evocano l’evanescenza dell’innocenza e della giovinezza, incoronano il vincitore, commemorano il martire, ornano le bandiere delle nazioni e gli stendardi dei lignaggi reali. Ma più di ogni altra cosa, le rose significano amore in tutte le sue sfumature terrene e celesti: per la persona o la cosa che amiamo, per quelle che abbiamo amato e perduto, o ancora per qualcosa a cui non sappiamo dare un nome, ma che ci attrae e misteriosamente ci sfugge» (ibid., p. 162).

Scopriamo che la rosa è utilizzata non solo dalla letteratura mitica dell’antica Grecia e da quella cristiana (vedi il Paradiso di Dante), ma anche dall’alchimia, con particolari sfumature simboliche:

«Per gli alchimisti, l’intero processo di trasformazione psichica si compie sub rosa (letteralmente, “sotto la rosa”). Con il significato di “in confidenza, segretamente”, questa espressione trova presumibilmente la sua origine nella rosa che Eros regalò ad Arpocrate, il dio del silenzio, come segno di gratitudine per la discrezione avuta sulle relazioni amorose illecite della madre Afrodite. Tuttavia, nell’alchimia l’incrocio tra una rosa rossa e una bianca non solo allude all’“avventura amorosa” e al “matrimonio” tra nature opposte, all’albedo e alla rubedo come comprensione e realizzazione dei processi psichici, ma anche al silenzio che deve necessariamente avvolgere l’essenza profonda dell’opera, il grembo o la “rosa” all’interno dei cui petali il Sé è segretamente concepito» (ibid., pp. 162-163).

Se è vero che Dante sceglie l’immagine della rosa a quello della città, è anche vero che, spesso in Occidente la città (pensiamo a Palmanova) è, in certo modo, «la stilizzazione di un fiore visto dall’alto, per lo più, e la pianta di una città simmetricamente costruita» (Guardini 1986, p. 165).

«La rosa dantesca si deve, come sembra, intendere psicologicamente in questo contesto. Essa è il fiore più nobile, ma nella sua forma si intravvedono pure, come già abbiamo accennato, gli elementi della città. È fatta di luce, e nel suo fondo sta il lago della vita divina che – espressione dell’Unità e Totalità dinamica – è portata dagli angeli nei suoi diversi punti. La rosa significa la totalità dell’esistenza giunta alla sua eterna perfezione, e il pensiero di Dante verrebbe certo giustamente interpretato se si dicesse che soltanto per essa il mondo diventa comprensibile. Ma nello stesso tempo essa è anche l’immagine-modello e il segnavia secondo cui si deve attuare in virtù della grazia l’immagine eterna di ogni singola creatura» (Guardini 1986, pp. 165-166).

La rosa racchiude, nella sua misteriosa bellezza, il termine di un cammino che dallo smarrimento nella selva oscura e dal rischio di rimanere prigionieri all’inferno («Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate»), conduce alla scoperta della luminosità dell’«amor che move il sole e l’altre stelle».

La Comedia ci introduce in un’esperienza viva che non ci lascia passivi, anzi ci invita a entrare nella narrazione per diventarne attivi protagonisti. Come? Mediante la visione:

«La Commedia non vuole solo narrare esperienze meravigliose, ma vuole comunicare una visione nella quale, chi guarda, compie un viaggio attraverso l’aldilà e vi esperisce lui stesso la trasformazione decisiva. Il momento visionario (…) è inscindibile dalla narrazione. Il poeta non dice soltanto: vidi questo e quello, fui scosso, illuminato, reso felice, ma questo sguardo visionario dell’aldilà specifica tutto il processo e la natura delle cose rappresentate. Ciò è tanto più significativo in quanto la Divina Commedia è tutta satura di realtà, i suoi contenuti sono estremamente densi e concreti e la sua forma è della più grande precisione» (ibid., p. 168).

Secondo Guardini, il lettore ha una sola possibilità di entrare nel poema dantesco e questa consiste appunto, nel “rivivere la visione”: «L’elemento visionario che vibra dovunque è quanto crea nella Divina Commedia l’atmosfera dell’aldilà. Se il lettore vuol comprendere di che cosa si tratta deve in certo qual modo rivivere la visione» (ibid., p. 169). E ci offre un’ulteriore perla della sua interpretazione del poema (nella terza parte del suo La Divina Commedia di Dante “Realtà terrena e realtà eterna”), mostrandoci l’opera riunificatrice cristiana nel verbo incarnato (Logos) e l’attuazione della vocazione umana come comunione tra uomo e Dio, da sempre “idea”, pensata e desiderata dal creatore e “realizzata” nella vera “Rosa del cielo”, la persona di Cristo Gesù:

«Il riguadagnare se stesso; l’unificarsi dell’uomo così com’è sulla terra, col modo in cui Dio l’ha pensato e l’ha voluto; la realizzazione dell’idea come unità tra Dio e uomo attraverso Cristo, che certo è l’“idea / che partorisce, amando, il nostro sire” (Par. XIII 53-54), il Logos – è questa la Rosa del cielo» (Guardini 2012, p. 285).

Dinanzi a Lui ogni immagine, sia essa l’oggetto più alto e sublime, viene meno. La sua persona è l’essenza vivente del cammino (nascita, vita, morte, resurrezione), come Guardini stesso ha mostrato in un bel libro, L’essenza del cristianesimo, centrato proprio sulla persona di Gesù (Guardini, 1993).

  1. Conclusione

La rilettura guardiniana del viaggio e della visione di Dante, ci hanno condotti a rivolgere il nostro sguardo verso la visione cristiana dell’uomo, culminata nel verbo incarnato, Gesù, “Logos”, “idea”, “nostro Sire”, “Rosa del cielo”, essenza del cristianesimo, mediatore e sintesi della divino-umanità.

L’orientamento filosofico-teologico guardiniano è stato attento ai temi dell’antropologia e della psicologia. E non a caso, perché egli ha trattato persone e temi con fine sensibilità psicologica, sia nell’accompagnamento spirituale sia come interprete dell’uomo e della cultura del suo tempo.

Il viaggio e la visione hanno anche aperto spunti di riflessione e confronto sul tema tra Jung e Guardini, il cui approfondimento non potrà che essere, in futuro, assai fecondo. Si pensi, per esempio all’archetipo del viaggio che è alla base di ogni movimento umano, ogni tensione verso l’esterno, verso il futuro o verso un obiettivo, ogni ricerca di altro da sé e ogni immersione dentro di sé. È il percorso che porta in avanti l’individuo, in un procedere continuo, parte integrante dell’evoluzione umana. Questo movimento, questo “esodo”, secondo Jung, tende all’unico vero viaggio di cui ogni altro è simbolo: il percorso di individuazione. E si pensi al tema dell’ombra e della luce (cfr. E. Casale, La luce dell’inconscio) che possono offrire altrettanti spunti di confronto e di dialogo.

Al termine di questa indagine ci si può anche domandare: che cosa hanno in comune l’I Ching, Il segreto del fiore d’oro e la Divina Commedia? Se non altro, la chiara intenzione di condurre il lettore a un viaggio e a una visione interiore che possano illuminare la persona, purificandola e liberandola dai suoi impedimenti e dai suoi limiti, aprendola alla verità della realtà (contro ogni apparenza e superficialità), per sperimentare su di sé la purificazione, la liberazione, l’illuminazione.

Viaggio e visione diventano così elementi di rigenerazione, ma anche caratteri comuni e assai chiarificatori, in queste opere, per giungere a un regno di luce, non solo esteriore ma anche interiore, a una illuminazione reale e trasformante che porti a compimento le potenzialità insite nella persona, che non è soltanto realizzazione di passioni o desideri ma vera realizzazione del “sé”, compimento della sua personalità, beatitudine stabile e duratura, e, oseremmo dire piena felicità.

 

[1] Nato a Verona il 17 febbraio 1885 e morto a Monaco il 1 ottobre 1968, è uno dei filosofi e dei teologi cattolici, pedagogisti e interpreti della letteratura più significativi del XX secolo (cfr. Gerl-Falkowitz, Hanna-Barbara (1985, 1988). Romano Guardini. La vita e l’opera, Morcelliana: Brescia).

[2] Guardini, R. (2012). La Divina Commedia di Dante. I principali concetti filosofici e religiosi, a cura di Oreste Tolone. Brescia: Morcelliana. Questa è un’opera incompiuta che, come scrive il curatore, “nelle intenzioni dell’autore, doveva portare a compimento un percorso di oltre venti anni di approfondimenti dedicati alla figura di Dante Alighieri e in particolare alla sua Commedia” (ibid., p. 7).

[3] Guardini, R. (1986). Studi su Dante: Brescia, Morcelliana. Contiene due saggi: L’angelo nella Divina Commedia di Dante, pp. 9-130; Paesaggio dell’eternità, pp. 131-372.

[4] Cfr. Messaggio del Santo Padre Francesco al Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura in occasione della celebrazione del 750° anniversario della nascita di Dante Alighieri (4 maggio 2015). Cfr. Bibliografia.

[5] Lettera apostolica Candor Lucis Aeternae del Santo Padre Francesco Nel VII centenario della morte di Dante Alighieri (25 marzo 2021). Cfr. Bibliografia.

[6] Lettera apostolica in forma di motu proprio Altissimi Cantus del Santo Padre Paolo VI per il settimo centenario della nascita di Dante Alighieri. Cfr. Bibliografia.

[7] Cfr. Auerbach E. (1999). Studi su Dante, prefazione di Dante Della Terza. Milano: Feltrinelli. (“Dante poeta del mondo terreno”), pp. 1-161.

[8] Rivelato all’Occidente nel 1929 dall’opera congiunta di Jung e di Richard Wilhelm, il libro ha ancora oggi un duplice, eccezionale interesse. Ai cultori delle filosofie orientali e dell’alchimia, e agli storici delle religioni, si offre come un testo prezioso della tradizione esoterica taoistica, che enuncia con chiarezza i metodi e il senso ultimo della sapienza cinese: i princìpi della «circolazione della luce» e della «difesa del centro», l’arte della respirazione ritmata, i segreti della meditazione immobile. Ma, nello stesso tempo, il Segreto del fiore d’oro ha guidato Jung nella riscoperta del significato dell’alchimia che lo ha portato a comprendere i processi dell’inconscio collettivo, e lo ha iniziato a quel «confronto psicologico» con l’Oriente che è una delle costanti più significative e attuali della sua riflessione.

[9] Titolo originale: Kommentar zu “Das Geheimnis der goldenen Blüte”. Pubblicato, in prima edizione, nel volume del sinologo Wilhelm R., Jung C. G. (1929). Das Geheimnis der goldenen Blüte. Ein chinesisches Lebensbuch. Dornverlag: Monaco. Il libro conteneva la traduzione di un antico testo cinese, il T’ai I Chin Hua Tsung Chih’ (Il segreto del fiore d’oro) preceduto dal commento “europeo” di C. G. Jung.

[10] Jung scrive: «Il lettore potrà trovare una trattazione più esauriente a questo riguardo nei miei due scritti “Simboli onirici del processo d’individuazione” e “Le rappresentazioni di liberazione nell’alchimia”, apparsi in “Eranos-Jahrbuch” nel 1936 e nel 1937. I due scritti sono ora compresi in Psicologia e alchimia (1944), in “Opere”, vol. 12».

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