Ruolo delle conoscenze psicoanalitiche nella comprensione e nel trattamento del Gaming Disorder <br> Janiri L.<sup>1</sup>, Ferri V.R.<sup>1</sup>, Giuseppin G.<sup>1</sup>, Pivetta E.<sup>1</sup>

Ruolo delle conoscenze psicoanalitiche nella comprensione e nel trattamento del Gaming Disorder
Janiri L.1, Ferri V.R.1, Giuseppin G.1, Pivetta E.1

Ruolo delle conoscenze psicoanalitiche nella comprensione e nel trattamento del Gaming Disorder

 

Janiri L.1, Ferri V.R.1, Giuseppin G.1, Pivetta E.1

1 Institute of Psychiatry and Psychology, Fondazione Policlinico Universitario “A. Gemelli”, Università Cattolica del Sacro Cuore, Rome, Italy 

Abstract:

Negli ultimi due decenni l’utilizzo eccessivo di videogiochi ha destato crescente preoccupazione pubblica ed è recentemente diventato una categoria diagnostica dell’ultima edizione dell’International Classification of Diseases (OMS). Il gioco eccessivo è stato inquadrato per lo più nel modello di “dipendenza”, tuttavia sono possibili letture diverse di questo fenomeno. Anche se gli studi psicodinamici e psicoanalitici sull’argomento sono limitati, abbiamo evidenziato alcuni dei contributi che ci sembrano essere più significativi nell’ottica di una maggior comprensione dell’eccessivo utilizzo di videogiochi e di un loro possibile ruolo, diretto o indiretto, nella cura dei pazienti che manifestano tale problematica.

Parole chiave:Gaming Disorder, videogiochi, dipendenza, realtà virtuale, psicodinamica
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Introduzione

Negli ultimi due decenni la diffusione dell’utilizzo dei videogiochi da parte di bambini e adolescenti ha destato crescente preoccupazione pubblica per i potenziali effetti dannosi, inclusa la possibilità di sviluppare una vera e propria “dipendenza”. Da quando, nel 2013, l’American Psychiatric Association ha inserito l’Internet Gaming Disorder nella sezione “Misure e modelli emergenti” dell’ultima edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5; APA 2013), gli studi sull’utilizzo problematico dei videogiochi sono drasticamente aumentati. Nel 2018 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha elencato il Gaming Disorder nella sezione “Disturbi dovuti all’uso di sostanze o comportamenti di dipendenza” dell’undicesima edizione dell’International Classification of Diseases (ICD-11; WHO 2018). Il Gaming Disorder viene definito dall’OMS come un pattern comportamentale di gioco “digital-gaming” o “video-gaming”) caratterizzato da mancato controllo sul gioco, crescente priorità data al gioco rispetto ad altre attività, tanto che il gioco arriva ad avere la precedenza rispetto alle attività quotidiane, e il continuare a giocare nonostante il verificarsi di conseguenze negative. Per porre diagnosi di Gaming Disorder il pattern comportamentale deve essere di severità tale da causare una significativa disfunzione nell’area personale, familiare, sociale, educazionale, occupazionale e in altre aree importanti di funzionamento e deve essere generalmente evidente per almeno 12 mesi. La decisione di includere il disturbo da gioco nell’ICD-11 è stata basata sulle evidenze di letteratura disponibili ed ha ricevuto il consenso di esperti di diverse discipline che sono stati coinvolti nel processo di consultazione tecnica durante lo sviluppo dell’ICD-11. Tuttavia, alcuni autori sostengono che non vi siano ad oggi il supporto clinico necessario e la sufficiente utilità clinica per giustificare il passaggio da un costrutto di ricerca ad una categoria diagnostica riconosciuta (van Rooij et al. 2018; Deleuze et al. 2018; Kardefelt-Winther 2014; Kuss et al. 2012). Secondo gli autori, anche se un paziente dovesse simultaneamente giocare in maniera intensiva ai videogiochi e sviluppare una disfunzione clinicamente significativa, non avremmo ad oggi sufficienti evidenze per stabilire un rapporto di causalità tra gioco e disfunzione. (van Rooij et al. 2018; Kardefelt-Winther 2014).

L’eccessivo utilizzo di videogiochi nel modello bio-psico-sociale di addiction

Il gioco eccessivo è stato ad oggi inquadrato più frequentemente nell’ottica del modello bio-psico-sociale delle dipendenze comportamentali. Tale modello sostiene che l’Internet Gaming Disorder condivida con i disturbi da uso di sostanze alcune caratteristiche cruciali, quali l’uso eccessivo nonostante le conseguenze negative, i fenomeni di astinenza e di tolleranza (Weinstein 2017). Griffiths (Griffiths et al. 2016) afferma che le componenti che costituiscono il processo bio-psico-sociale che porta alla dipendenza da gioco si susseguono nella seguente modalità:
1. la persona è totalmente assorbita dal gioco;
2. il gioco è un modo per fuggire la realtà e provare emozioni piacevoli;
3. la persona ha bisogno di prolungare il tempo passato a giocare per sentire gli effetti positivi su di sé;
4. la persona si sente ansiosa, depressa e irritabile se non può giocare;
5. si verifica un significativo ritiro sociale;
6. la persona non riesce a smettere o ridurre il gioco nonostante le conseguenze negative.
In accordo con questo modello di addiction, gli studi di brain imaging hanno messo in evidenza cambiamenti strutturali e funzionali nei meccanismi di ricompensa (Meng et al. 2015) e di controllo e inibizione (Zhang et al. 2016; Dong et al 2012), mentre più limitate, allo stato attuale, sono le evidenze riguardanti i meccanismi astinenziali (Weinstein 2017). L’Internet Gaming Disorder è stato associato ad una densità del trasportatore striatale della dopamina (DAT) del cervello ridotta (Hou et al. 2012) e ad una minore occupazione del recettore D2 della dopamina (Kim et al. 2011). Sembra che l’uso eccessivo del sistema di ricompensa della dopamina nel cervello assomigli alla sotto-regolazione osservata in caso di abuso di droghe e alcol, sebbene in entrambi i disturbi non ci siano misure di riferimento prima della dipendenza che precludano qualsiasi inferenza sulla causalità (Weinstein 2017). In accordo con il modello di dipendenza, è stata documentata l’esistenza di una vulnerabilità genetica dopaminergica, tanto da spingere alcuni autori a classificare il gaming patologico come sindrome da deficit di ricompensa (Weinstein e Weizman 2012; Blum et al. 2008).

Il contributo della psicoanalisi

Quale può essere il contributo delle conoscenze psicoanalitiche alla comprensione del fenomeno dell’eccessivo utilizzo dei videogiochi? La realtà virtuale può essere compresa in termini psicoanalitici? Le forme estreme di utilizzo possono essere trattate con metodi analitici? Per rispondere a questi quesiti dovremo per un istante abbandonare il concetto tradizionale di “dipendenza da gioco” e provare a considerare l’evoluzione tecnologica alla quale abbiamo assistito negli ultimi tre decenni come una nuova cornice, all’interno della quale possono emergere nuovi quadri patologici, ma anche nuove possibilità di comprensione e cura.
I videogiochi, fornendo l’esperienza di altri possibili sé (avatar), attraverso l’esercizio di diversi ruoli, l’esperienza di prendere decisioni e lo svolgere determinati compiti, possono consentire l’acquisizione di schemi di azione mentale, di giudizi morali e l’opportunità di elaborare questioni psicologiche, in funzione della specifica capacità di collezionare elementi simbolici (Petry 2011). Una review del 2016 ha raccolto la letteratura disponibile sull’utilizzo dei videogiochi in terapia (Franco 2016), evidenziando i benefici che questo sembrerebbe avere, sia nel favorire l’instaurarsi di una salda relazione terapeutica, sia nell’accedere ad informazioni personali riguardanti il paziente. Conoscendo la tipologia di videgioco a cui il paziente gioca si possono, infatti, ottenere informazioni rispetto alle credenze, alle inclinazioni ed ai valori del paziente stesso. La review riporta diversi studi che mettono in evidenza i potenziali benefici dell’utilizzo dei videogiochi nel couseling e nella psicoterapia, mentre ancora pochi sembrerebbero essere i lavori sull’integrazione dei videogiochi nella pratica terapeutica effettiva (Franco 2016).
Ad oggi sono piuttosto limitati gli studi che hanno trattato il tema del gioco problematico dal punto di vista psicodinamico/psicoanalitico, eppure in molti studi sui videogiochi troviamo conoscenze psicoanalitiche come chiave di lettura sociologica e antropologica, ma anche come parte costituente del background dei professionisti che producono e commercializzano videogiochi. Citazioni ricorrenti sono quelle riguardanti il concetto di flusso di Csikszentmihalyi (Sale and Zimmerman 2004; Shaffer 2006; Novak 2010) e le retoriche di gioco di Sutton-Smith (Sale and Zimmerman 2004; Schell 2011). Meno comuni ma molto interessanti sono gli studi sui videogiochi dalle prospettive analitiche di Jung (Novak 2010), Melanie Klein (McDonald 2012), Freud (Boyer 2007; Petry e Petry 2012) e Lacan (Turkle 2011; Petry e Petry 2012).
McDonald, in un lavoro del 2012, fornisce alcuni strumenti utili per approssimare le conoscenze psicoanalitiche allo studio del fenomeno dei videogiochi. Come suggerito anche da altri autori (Jarvinen 2008; Bogost 2007), McDonald invita a rivolgere l’attenzione a quelle che vengono definite “meccaniche di gioco”. Una meccanica di gioco è un “mezzo che il sistema di gioco offre ai suoi giocatori per perseguire gli obiettivi previsti nel set di regole” (Jarvinen 2007, p. 253-8), in altre parole è una regola o un insieme di regole che mettono in relazione una o più risorse con uno o più effetti. Isolare le meccaniche di gioco permetterebbe di superare le difficoltà interpretative di lettura dei videogiochi, legate “alla loro natura indeterminata e mutevole, alle loro dimensioni, e alla difficoltà intrinseca di interagire con lo strumento” (Bizzocchi and Tanenbaum 2011, p.299). L’autore introduce inoltre la nozione di “inconscio ludico”, suggerendo che l’inconscio psicoanalitico possa essere coinvolto nel modo in cui gestiamo i controlli nei giochi. In altre parole, le nostre azioni sui controlli di gioco sarebbero soggette alle manifestazioni del nostro inconscio, determinando le decisioni del gameplay (McDonald 2012). In particolare, McDonald descrive le meccaniche del gioco Ico per playstation 2 dalla prospettiva della teoria delle relazioni oggettuali di Melanie Klein. Partendo dal presupposto che ogni aspetto della vita mentale avviene nella e attraverso la fantasia inconscia (Klein 1975), l’autore sostiene che anche ogni atto di gioco venga costantemente interpretato dal giocatore attraverso fantasie inconsce, con particolare riferimento all’identificazione proiettiva e introiettiva. Lo stesso concetto viene ripreso anche da Weisel (2015), la quale evidenzia come il materiale selezionato durante il gioco assuma una sorta di funzione portante per i contenuti psichici inconsci, facendo un parallelismo tra le aspettative inconsce del giocatore e ciò che Bion definisce “preconcetti” (Bion 1962/2013), che, secondo l’autrice, vengono temporaneamente realizzati nel gioco (Weisel 2015).
Esther Bick ha coniato il termine “identificazione adesiva” (Bick 2002) per indicare la prima forma di identificazione, un aggrapparsi alla superficie esterna dell’oggetto perché uno spazio interno ancora non si è formato, che è limitato nel tempo di gioco. L’autrice osserva che il giocatore durante il gioco è in uno stato di eccitazione, mentre fuori dal gioco è nello stato opposto della mente, “vuoto”. L’autrice suggerisce che il gioco possa facilitare parti della complessa organizzazione verso una forma temporanea di espressione pre-simbolica. Quando il gioco finisce, questa organizzazione non è attuabile allo stesso modo e un ulteriore sviluppo nella vita reale può essere precluso (Bick 2002). La teoria psicoanalitica della formazione dei simboli suggerisce che la capacità di simbolizzazione è acquisita nella prima infanzia e può risultare deficitaria sotto stress o come difesa contro conflitti irrisolti. Weisel individua due forme di rottura della funzione simbolica (Ogden, 1985) come difese operative nell’uso eccessivo di videogiochi: nella prima, la fantasia e la realtà possono effettivamente essere preservate ma, come in un disturbo dissociativo, sono tenute separate l’una dall’altra e non hanno alcuna connessione tra loro; nella seconda, la forma più estrema di fronteggiare situazioni insopportabili, vi è l’estinzione di qualsiasi connessione tra significante e significato: uno stato di “non esperienza”. Secondo Weisel, all’interno del gioco si verifica l’attualizzazione degli schemi di affettività relazionali interni inconsci nella loro forma pre-simbolica, una sintesi temporanea di ciò che era precedentemente irrevocabilmente separato. Fuori dal gioco si ha invece un’inversione di qualsiasi tentativo di rappresentazione perché la relazione tra significante e significato è estinta, la capacità della fantasia viene disattivata e le esperienze emotive vengono evitate (Weisel 2015).
Un altro lavoro che offre importanti spunti di riflessione in una chiave di lettura psicodinamica dell’uso eccessivo della tecnologia (videogiochi, social media, materiale pornografico) è quello di Essing (2012). L’autore evidenzia come i giochi patologici includano sempre qualcuno che guarda allo schermo ciò che la vita può offrire, ma non è in grado di muoversi agevolmente tra “online” e “offline”, tra “spazio di gioco” e “spazio reale”, e definisce questo fenomeno “intrappolamento da simulazione” (Essig 2012). I giocatori si confondono e possono essere bloccati, solo per un momento o per un lungo periodo di tempo. Le persone perdono la capacità di riguadagnare consapevolezza riflessiva sul tipo di esperienza che stanno vivendo e, precisa l’autore, si tratta di una sospensione di distinzione non voluta. L’autore cita l’esempio di ragazzi che giocano eccessivamente a World of Warcraft e pensano di non aver bisogno di andare in classe, o persino di dormire o mangiare, in quanto perderebbero tempo nel loro glorioso cammino di costruzione dei personaggi. Sentono di dover tornare al gioco il prima possibile perché è così che troveranno il prossimo passo nel loro percorso di vita. Riprendendo alcuni concetti dal lavoro di Dreyfus (2000), Essig evidenzia tre importanti differenze esperienziali tra il gioco e la vita reale (Dreyfus 2000): il rischio, l’opulenza e l’incarnazione razionale. Per quanto riguarda la prima, il mondo virtuale ne è privo: se faccio un errore posso ricominciare il livello, se muoio posso usufruire di un’altra vita. L’autore evidenzia come coloro che sentono di aver già perso quello che possono sopportare e sentono che continueranno a perdere in quanto non sono bravi ad essere “corpi insieme”, risulterebbero particolarmente vulnerabili a questo “intrappolamento da simulazione”. La seconda dimensione è quella della ricchezza: nel gioco qualunque ricchezza presente può essere controllata, la sorpresa è limitata perché tutto ciò che è sconosciuto può essere conosciuto. Caratteristica dell’esperienza reale è quella di non poter mai sapere in anticipo quale elemento sarà significativo (Borgmann 2000). Essig suggerisce che i pazienti con gioco problematico non sono pronti a “lasciare che il mondo li sorprenda” (Essig 2012). La terza dimensione è quella della incarnazione razionale, cioè il modo in cui si usa il proprio corpo in e per le connessioni sociali. L’interazione tra due umani che conversano faccia a faccia dipende da una sottile combinazione di movimenti oculari, movimenti della testa, gesti e postura. Questa “intercorporazione”, come la chiama Merleau-Ponty (1962), non può essere catturata scorporando l’interazione in canali indipendenti (video, audio, etc.) né aggiungendo immagini 3D, suono stereo, controllo remoto, e così via. Ciò che viene perso nelle interazioni mediate da schermo è la possibilità di controllare il mio corpo per modificare la mia posizione nel mondo, migliorandola o peggiorandola. Essig conclude suggerendo che le differenze tra l’esperienza tecnologicamente mediata e l’esperienza tradizionale di essere “corpi insieme” debbano essere evidenziate e discusse come parte integrante della terapia di pazienti con eccessivo utilizzo dei videogiochi (Essig 2012).

Conclusioni

L’inquadramento del fenomeno del gioco problematico nella cornice delle dipendenze patologiche ha portato una serie di vantaggi, soprattutto in ambito di ricerca. L’inclusione dell’Internet Gaming Disorder nel DSM-V ha fornito un linguaggio comune, a fronte delle preesistenti molteplici e talvolta incompatibili versioni del termine “internet addiction”, che includevano in maniera disomogenea l’utilizzo dei videogiochi, dei social media, del materiale pornografico, etc.. Il concetto di “dipendenza da gioco” è facilmente fruibile da pazienti e genitori e mette in evidenza il carattere compulsivo/impulsivo, isolato ed autodistruttivo di questo tipo di esperienza, facilmente accomunabile a quella di un tossicodipendente. Tuttavia, a nostro parere, l’inquadramento del gioco nel modello di dipendenza non deve limitare l’utilizzo di letture diverse del fenomeno, né la gamma di ricerca futura. Il concetto di “dipendenza” è stato formulato in un’epoca precedente rispetto alla diffusione capillare della tecnologia e della realtà virtuale. Il nostro modo di stare nel mondo è profondamente cambiato e sempre più spesso accompagnato o mediato dal supporto tecnologico; la gamma di esperienze possibili nella realtà virtuale è infinita. Avere uno sguardo aperto e non condizionato rispetto a questi nuovi tipi di esperienza permette di apprezzare le novità senza precedenti che le nuove tecnologie di simulazione ci offrono, e di adattare i concetti clinici tradizionali a questo mondo emergente senza dare per assunto che ciò che già sappiamo oggi sarà sufficiente a spiegare questi nuovi comportamenti e, di conseguenza, questi nuovi quadri patologici.

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