La revisione critica del reato:aspetti psicologici e trattamentali, indagine statistica. <br> di Capece M.(1), Sabatini A.(2)

La revisione critica del reato:aspetti psicologici e trattamentali, indagine statistica.
di Capece M.(1), Sabatini A.(2)

Parole chiave: Sistema Penitenziario, Reo, Condannato, Trattamento, Rieducazione, Ordinamento Penitenziario, Esperto ex art. 80, Revisione Critica, Detenuto, Giustizia Riparativa.

Abstract:

Ripercorrendo le tappe storiche dell’evoluzione del sistema penitenziario dal punto di vista giuridico e normativo, il presente articolo mette in risalto quelli che sono stati i cambiamenti legislativi più significativi e le conseguenti ripercussioni che questi hanno avuto nel contesto penitenziario, analizzando il ruolo dell’esperto ex art. 80 e ponendo al centro della riflessione il reo e la finalità del percorso trattamentale intrapreso. Il lavoro nasce con l’obiettivo di porre in evidenza il significato del trattamento in virtù del rispetto del senso di umanità e della rieducazione del condannato. Particolare attenzione è stata posta alla riflessione critica in merito ai reati commessi, condividendo i dati statistici emersi da una ricerca svolta all’interno del contesto penitenziario.

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Introduzione

Il carcere è, per definizione, un luogo di espiazione di una pena, un ambiente nel quale gli individui reclusi sono temporaneamente privati della propria libertà per aver commesso un reato, anche gravissimo.
Da un punto di vista umano e costituzionale il carcere non deve essere però un luogo di sofferenza e quindi di sola punizione, bensì un luogo nel quale chi vi è recluso possa comprendere la gravità dell’errore commesso e apprendere quelle regole e norme comportamentali che guidano la società.

Per far sì che il contesto penitenziario possa favorire il corretto reinserimento sociale del reo è quindi fondamentale il processo di revisione critica del reato, cioè la presa di coscienza di ciò che si è commesso e le conseguenze a cui tali comportamenti hanno portato, in modo tale da agire funzionalmente sui vari aspetti.

Tale processo viene quindi favorito nel contesto penitenziario anche grazie alla presenza di esperti formati, quali lo psicologo esperto ex art. 80, il quale mediante colloqui individuali e attività di gruppo favorisce il processo di rieducazione e reinserimento sociale.

L’intervento da mettere in atto con il reo negli istituti non è più pertanto esclusivamente correlato all’adattamento alla vita nel nuovo contesto di privazione della libertà, bensì diviene principalmente di natura riparativa.

La riforma dell’Ordinamento Penitenziario (O.P.) del ’75, e le modifiche più recenti, hanno infatti permesso di codificare i principi del trattamento e del reinserimento sociale dei detenuti, anche mediante misure alternative alla detenzione, a cui il reo può accedere in relazione al riconoscimento del reato commesso, cioè al processo di revisione critica del reato effettuato nel contesto penitenziario.

L’organizzazione politica e giuridica della società di oggi stabilisce sanzioni penali per coloro che violano la legge, che vengono allontanati dalla società, la quale spesso è elemento centrale nella strutturazione dei comportamenti devianti, e vengono così inseriti nel contesto penitenziario.

Nel corso del tempo il sistema penitenziario ha subito notevoli cambiamenti e la finalità della pena, dapprima di carattere punitivo, basata su torture e umiliazioni, ha assunto un obiettivo rieducativo, ponendo al centro del trattamento il detenuto, e tenendo quindi conto anche della dignità che lo caratterizza, attraverso il suo graduale recupero e reinserimento nella società.

Il carcere nasce, infatti, come istituzione deputata alla custodia del reo in attesa della pena prevista per il suo stesso crimine, concetto che permane per lungo tempo; per tale motivo si deve attendere il 1700 per poter percepire la reclusione come strumento sanzionatorio vero e proprio.

Precedentemente nelle carceri non venivano reclusi solo criminali o prigionieri di guerra, bensì venivano considerati soggetti da allontanare dalla società e quindi da rinchiudere, anche poveri, malati di mente, vagabondi e mendicanti.

Un importante cambiamento avviene però a partire dal XVIII secolo, quando la dottrina giuridica illuminista respinge il principio della pena intesa come punizione e adotta quello della pena come rieducazione, facendo sì che lo Stato non abbia più solo il diritto di recludere, ma anche l’obbligo di rieducare.

In quel periodo, in Italia, un’importante variazione della valutazione del detenuto e della pena avvenne con l’emanazione del Codice Leopoldino, che condusse ad una sostanziale riforma della pena, abolendo la pena di morte e di tortura e sancendo il principio di uguaglianza di fronte alla legge.

A partire dal diciannovesimo secolo, le carceri divennero la modalità maggiormente utilizzata in tutta Europa, avendo principalmente la funzione di isolare il condannato e favorire, attraverso il silenzio e la segregazione, l’introspezione e la revisione del reato commesso.

Nel nostro Paese, un’importante svolta all’interno del sistema penale è avvenuta in seguito all’Unità d’Italia, quando si è percepita la necessità di uniformare il sistema detentivo su tutto il territorio, istituendo anche strutture adeguate a tali fini.

Fino ad allora l’Italia era infatti ancorata al codice penale sardo, il quale poneva al centro degli interessi e della valutazione del crimine il rango cui i soggetti accusati appartenevano, piuttosto che il reato commesso.

Da allora, l’Italia subì pertanto grandi cambiamenti dal punto di vista politico, sociale ed economico, portando a importanti miglioramenti di vita e a un incremento dei diritti, sia delle persone libere sia dei detenuti.

Il 1 gennaio 1890 entrò poi in vigore Il Codice Zanardelli che portò all’abolizione della pena di morte, ancora utilizzata in maniera piuttosto rilevante in numerosi paesi, favorendo così il diffondersi della detenzione intra-muraria come modalità di espiazione della pena.

Con l’avvento del fascismo in Italia si assiste però ad un brusco rallentamento dei cambiamenti riguardanti il sistema penitenziario; si assiste infatti ad un irrigidimento e ad un inasprimento della pena. In pieno periodo fascista viene infatti emanato, nel contesto carcerario, il Codice Rocco il quale rappresenta una fedele traduzione dell’ideologia fascista.

Con l’emanazione e l’entrata in vigore del codice “Il carcere si ripropone ancora una volta come un’istituzione chiusa all’esterno, isolata dal resto del mondo, in cui non si punta alla ri-educazione, ma unicamente alla segregazione”.

Solo con l’emanazione del regolamento penitenziario (1931) si nota una piccola variazione nel suddetto contesto poiché, pur non rinunciando al mandato punitivo, si inizia a tener conto dell’importanza del processo di recupero e rieducazione dei detenuti.

La centralità dell’uomo nel contesto penitenziario e la protezione della dignità umana assumono tuttavia un ruolo centrale grazie all’entrata in vigore della Costituzione Italiana.

Due sono gli articoli della Costituzione Italiana riguardanti la pena e le sue funzioni, precisamente gli articoli 25 e 27.

In particolare l’Art. 25 sancisce al secondo comma il principio di legalità, secondo il quale:

Nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto, legge che chiaramente deve vietare la commissione di quel fatto e che deve prevedere una pena in caso di trasgressione del divieto”.

L’articolo 27 stabilisce invece che:
“La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”.

Nel primo comma del suddetto articolo viene quindi sancito il principio della responsabilità personale della pena, viene cioè stabilito che nessuno possa essere punito per un fatto commesso da altri, senza provarne la reale colpevolezza.

Il secondo comma dell’articolo 27 sancisce il principio di non colpevolezza, dove viene definito come l’imputato non possa essere considerato colpevole, sino alla sentenza definitiva.

Infine, al terzo comma si afferma il principio di umanizzazione delle pene («Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità») e del finalismo rieducativo della pena («Le pene…devono tendere alla rieducazione del condannato»).

Nel contesto penitenziario assume quindi un ruolo fondamentale l’osservazione scientifica della personalità, i conseguenti interventi e le opportunità trattamentali, che rappresentano il sistema attraverso cui favorire il reinserimento sociale del condannato, elemento che faciliterebbe la rimozione delle cause di disadattamento sociale alla base dell’atto criminale.

L’importanza della presa in carico del reo e la considerazione del detenuto come persona, non più considerato come individuo da allontanare dalla società, bensì come soggetto che ha diritti e che può recuperare, assume un ruolo ancor più centrale con la riforma penitenziaria del 1975.

L’art. 1 della Legge n. 354 del 26 luglio 1975, “Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”, recita:

“Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona. Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità senza discriminazione […] Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato il trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso il contatto con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attivato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto
alle specifiche condizioni dei soggetti.”

L’articolo 1 stabilisce quindi come all’interno degli istituti di pena non ci si debba limitare ad esercitare sui soggetti detenuti una mera azione custodiale, ma si debbano mettere in atto tutta una serie di complesse attività che possano essere sinteticamente definite come “trattamento”.

Con la riforma del ’75 assume pertanto un ruolo centrale l’individuazione del trattamento personalizzato, mediante l’osservazione compiuta all’inizio dell’esecuzione e proseguita durante tutto il percorso detentivo, che mira a rispondere ai bisogni del singolo e alla valorizzazione delle singole competenze utili al reinserimento sociale.

Sulla base dell’art 1 dell’O.P. viene quindi definito come i trattamenti nei confronti dei detenuti debbano, anche grazie alle relazioni con l’ambiente esterno, favorire il reinserimento degli stessi, mediante l’incremento dell’autonomia, della responsabilità, della socializzazione e dell’integrazione.

La riforma del ’75 definisce quindi come il carcere debba favorire la revisione critica del reato da parte del condannato, grazie anche alla costante presenza di figure professionali competenti in materia, quali psicologi, educatori e assistenti sociali, ma anche grazie all’attività lavorativa che è alla base del sistema rieducativo carcerario, come afferma l’articolo 15:

“Il trattamento del condannato e dell’internato è svolto avvalendosi principalmente dell’istruzione, della formazione professionale, del lavoro, della partecipazione a progetti di pubblica utilità, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia”.
L’importanza della funzione rieducativa nel contesto carcerario assume poi ulteriore rilevanza con la legge Gozzini.

La legge Gozzini è volta a realizzare un percorso finalizzato al reinserimento del reo, fondando tutto il sistema detentivo sulla concessione di benefici e di permessi.

Questi ultimi vengono concessi ai soggetti che abbiano tenuto una condotta regolare e che non risultino particolarmente pericolosi.

Quando i soggetti manifestano costante senso di responsabilità e correttezza nel comportamento personale, nelle attività organizzate negli istituti e nelle eventuali attività lavorative e culturali, si considera la condotta dei detenuti come regolare.
La figura dello psicologo penitenziario nasce con la Legge di Riforma dell’Ordinamento Penitenziario del Luglio ’75.

La legge n° 354 sancisce il passaggio da un modello meramente retribuzionista della pena a un modello rieducativo-trattamentale, che ha come finalità la rieducazione e il reinserimento sociale del reo.

L’articolo 80, nello specifico, sostiene che per lo svolgimento delle attività di osservazione e di trattamento, l’amministrazione penitenziaria può avvalersi di professionisti esperti, che non fanno però riferimento solo all’ambito della psicologia, ma anche alla criminologia, psichiatria, pedagogia e servizi sociali.

Tuttavia è la figura dello psicologo che trova maggiore spazio in tale contesto proprio per la natura dell’incarico che si trova ad espletare e che fa riferimento all’individuazione del trattamento, che deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto, così come recita sempre l’Ordinamento Penitenziario all’articolo 13.

Alla figura dello psicologo penitenziario, così come definito precedentemente, vengono richieste funzioni di alto livello professionale, per prima l’osservazione scientifica della personalità.

Infatti l’osservazione della personalità, intesa come momento di raccolta di informazioni e di conoscenza del detenuto nei suoi aspetti bio-psico-sociali, rappresenta il metodo mediante il quale viene favorito il reinserimento sociale del condannato, attraverso la rimozione delle cause del disadattamento sociale che risultano essere alla base del reato commesso.

Durante gli incontri strutturati nel contesto penitenziario, in cui presiede lo psicologo, risulta pertanto fondamentale favorire l’incremento dell’autocritica e quindi il processo di revisione critica del reato nel detenuto, cercando di far rielaborare gli aspetti negativi dei vissuti devianti, ovvero offrire al reo gli strumenti psicologici, educativi e sociali che gli consentano non solo di facilitare il processo di riflessione delle condotte criminali messe in atto, ma anche di cercare di ridurre comportamenti recidivanti, comprendendo i nessi di causalità tra azioni e conseguenze.

La finalità ultima del carcere, infatti, non è solo rieducativa ma è anche un’occasione di riflessione del reato e delle motivazioni che hanno portato il detenuto a delinquere, accompagnandolo verso la consapevolezza di ciò che si è compiuto e quindi alla responsabilizzazione rispetto alle condotte devianti, partendo spesso dalla condivisione di emozioni.

Compito centrale del contatto con il detenuto è quello di favorire pertanto una presa di coscienza del reato commesso, cercando di far comprendere il valore e il disvalore sociale delle azioni, e conducendo il detenuto verso una profonda analisi rispetto agli agiti devianti.

Per revisione critica si intende quindi il ripensare, all’interno di un dialogo volontario con gli operatori penitenziari, alle condotte devianti e alle motivazioni che sono state alla base del comportamento compiuto e alle conseguenze che ne sono derivate, nei confronti della propria persona, della propria famiglia e della comunità, ma in particolar modo della persona offesa.[1]

Gli strumenti a disposizione dello psicologo ex art. 80 e più in generale nel contesto penitenziario, utilizzati per sostenere e valutare il detenuto, ma soprattutto per favorire una revisione critica del reato commesso, sono molteplici.

Tra gli strumenti e le metodologie trattamentali di cui dispone l’esperto ex art. 80, possiamo infatti identificare in particolar modo il colloquio, che funge da strumento di sostegno e aiuta l’esperto a rilevare le carenze psichiche del detenuto inserito in un contesto di restrizione della propria libertà. Importanti e funzionali al fine del reinserimento del reo sono tutte le attività trattamentali che ruotano intorno ad esso, come il lavoro, lo sport, la religione, lo studio, la formazione professionale, i progetti di pubblica utilità e tutte le attività ludico-ricreative organizzate all’interno degli istituti.
Tali attività sono utili anche al fine di redigere il programma trattamentale e la relazione di sintesi con l’obiettivo di prevedere la fruizione di eventuali benefici e misure alternative alla detenzione.

In conclusione, con la riforma dell’Ordinamento Penitenziario introdotta dalla legge n.354 del ’75, abbiamo assistito a un grande cambiamento del contesto penitenziario e in particolar modo rispetto alla concezione della pena. Essa, infatti, pone l’accento sui concetti di recupero, rieducazione e reinserimento del condannato, facendo sì che la pena non venga più concepita solo con uno scopo prettamente punitivo.

Inoltre elemento centrale della riforma è l’introduzione della figura dell’esperto ex art. 80 con specifica formazione psicologica o criminologica, figura che assume un ruolo fondamentale nel processo di osservazione scientifica della personalità e nel favorire nel reo quel processo di revisione critica del reato, ovvero quella presa di coscienza di sé, dei comportamenti devianti commessi e delle conseguenze che essi hanno avuto sulla società e in particolar modo sulla persona offesa.

Il concetto di revisione critica del reato assume infatti un ruolo centrale nel processo di recupero e reinserimento del reo nella società, in quanto non solo permette al detenuto di migliorare la comprensione di sé e di favorire un cambiamento, ma consente anche al reo, mediante la valutazione del raggiungimento di tale processo da parte del Magistrato di sorveglianza, di accedere a benefici e/o misure alternative alla pena.

Negli ultimi anni inoltre, all’interno del contesto penitenziario, si sta sempre più affermando uno spazio per iniziative di giustizia riparativa, su base volontaria del detenuto. L’istituto della giustizia riparativa è uno strumento funzionale al processo di riparazione nei confronti della vittima, che ha subito danni e conseguenze negative derivate dai comportamenti devianti attuati dal detenuto.
La giustizia riparativa si pone, infatti, come strumento in grado di valorizzare il processo di riflessione che il singolo detenuto svolge, al fine di incrementare la volontà di riparare agli errori commessi.

L’indagine svolta ha seguito un numero di 40 detenuti di età e nazionalità varie su 480 detenuti, distribuiti nel seguente modo:

LEGENDA:

BPRC=BUONA PROFONDA REVISIONE CRITICA

PRC=PARZIALE REVISIONE CRITICA

TOTALE DETENUTI=40

– DETENUTI SOTTO I 30 ANNI (18/30) = 3 ASSENZA DI REVISIONE CRITICA

– DETENUTI SOTTO I 50 ANNI (30/50) = 11 REVISIONE CRITICA PARZIALE

– DETENUTI OLTRE I 50 ANNI = 26 BUONA E PROFONDA REVISIONE CRITICA

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Evidenzia che la classe modale è la buona revisione critica e aumenta con l’aumentare dell’Età.

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In base all’indagine che abbiamo potuto svolgere nella nostra esperienza professionale possiamo evidenziare come la revisione critica del reato aumenti con l’aumentare dell’età e non in base alla condanna.

Conclusioni

Nella nostra personale esperienza, che ad oggi si sta svolgendo presso la Casa di Reclusione di Spoleto, è stato possibile notare come non sempre il processo di revisione critica del reato nel detenuto avvenga in relazione alla reale e autentica volontà al cambiamento.

In merito alle diverse esperienze e quindi alla possibilità di entrare in contatto con detenuti di fasce di età differenti e soprattutto con una differente tipologia di pena, abbiamo potuto difatti notare che i ragazzi più giovani con pene inferiori, o soggetti con gravi problematiche legate alla tossicodipendenza, sono maggiormente orientati alla ricerca di escamotage, al fine di accedere alle misure alternative alla pena, piuttosto che ad effettuare una reale analisi introspettiva di sé e quindi a raggiungere una profonda revisione critica del reato.

Al contrario, nelle attività colloquiali con i detenuti, presenti nella Casa di Reclusione di Spoleto e sottoposti a misure restrittive piuttosto lunghe, abbiamo potuto constatare una più autentica volontà di lavorare sulla revisione critica del reato commesso, proprio con lo scopo di intraprendere un percorso di cambiamento che possa permettergli poi di vivere all’esterno una quotidianità basata su principi di legalità e condotte moralmente corrette.

Durante i colloqui e le riflessioni rispetto agli agiti devianti, spesso sono i detenuti stessi a comprendere di “aver perso”: la perdita è sicuramente maggiore rispetto a ciò che hanno guadagnato mettendo in atto azioni criminali. Si rendono conto che facendo un bilancio della propria vita, in termini di costi e benefici, la perdita è sicuramente maggiore rispetto ai guadagni illecitamente ottenuti, poiché non è solo una perdita economica, ma riguarda anche le relazioni familiari, amicali, la libertà e la sfera emotivo-affettiva.

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  18. blog.assistentisociali.org/2012/11/02/lavoro-di-gruppo-e-reato/

[1] cfr. art 27 comma  1 e 118 comma 8 reg. es

(1) Dott.ssa Marzia Capece, psicologa, esperta in psicologia giuridica e criminologia clinica.

(2) Dott.ssa Ambra Sabatini, psicologa, psicoterapeuta, esperta in psicologia giuridica.

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