Il Fuoco e la Luce nella Divina Commedia e nella Psicologia Analitica <br> Antonio Grassi, Sandra Berivi

Dal libro di Giovanni Fighera Paradiso. In viaggio con Dante verso le stelle (Edizioni Sugarco).

Il Fuoco e la Luce nella Divina Commedia e nella Psicologia Analitica
Antonio Grassi, Sandra Berivi

di Antonio Grassi e Sandra Berivi

Parole chiave: fuoco – luce – parola – individuazione

Abstract: Gli autori propongono una visione, integrata in un unico percorso, del processo di individuazione come prospettato dalla Psicologia Analitica e del cammino analogo che fa Dante nella Divina Commedia. Individuano nei simboli del Fuoco e della Luce gli elementi psichici che fanno da trait-d’union tra le due versioni del processo, quella poetico-narrativa di Dante e quella psicologico-analitica di Jung. Una volta individuate le differenze concettuali e le componenti condivise, propongono la tesi che due rappresentazioni così affini, realizzate da autori tanto distanti nel tempo, circa 700 anni, dimostrano che alcuni principi di base, cosiddette Regole di Base della vita, sono come stelle fisse nel firmamento interiore dell’uomo , non sono sottoposte all’usura del tempo e rappresentano perennemente l’ordito e la trama della realtà psichica e spirituale dell’intera umanità.

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Introduzione

Nel 2021 ricorrono 700 anni dalla morte di Dante Alighieri. In un periodo storico che vede l’umanità confrontarsi con i propri limiti umani e con la morte in seguito alla pandemia di Covid-19, che ha colpito il modo intero, cimentarsi con il pensiero di chi ha rappresentato una svolta epocale, diremmo cardine per l’intero pensiero occidentale e non solo per l’Italia, e con uno dei testi poetici tra i più visitati e commentati, La Divina Commedia, può essere letto come un ulteriore omaggio, forse ardito, ad un autore da sempre molto amato, ma anche, secondo varie prospettive e dimensioni, come l’opportunità di confrontarci proprio con quei limiti e con la morte che non ci è stata mai così vicina dal tempo delle due Grandi Guerre del Novecento.

Essendo degli psicoanalisti junghiani, siamo dunque partiti dall’autore svizzero in una sorta di parallelo teso a sottolineare le vicinanze e le differenze con Dante[1], che pur non essendo uno psicologo, è stato interpretato anche in termini psicologici (Mazzarella,1991). Abbiamo scelto, in particolare, l’analisi psicologica e spirituale di due elementi simbolici, il fuoco e la luce, e, nella prospettiva aperta da questi ultimi, abbiamo rivisitato la concezione immanentistica di Jung a confronto con la dimensione trascendente di Dante che impregna di sé soprattutto il 3° Canto, il Paradiso[2].

Dal momento che il nostro saggio si propone l’obiettivo individuare i punti in cui le concezioni dei due autori si incontrano e quelli in cui, invece, essi divergono, cureremo prima una disamina di come i due elementi simbolici – fuoco e luce – sono interpretati da ciascuno dei due autori, per poi rilevarne le reciproche differenze ed assonanze. Obiettivo finale del contributo sarà di porre in evidenza non solo quanto l’opera del Sommo Poeta abbia precorso il cammino di cambiamento terapeutico teorizzato da Jung, nel solco già tracciato da altri autori, ma di verificare vieppiù la sussistenza di principi di base psicologici e spirituali, evidenziati sia dalla narrativa poetica sia dalle psicologie del profondo, che possono rappresentare dei capisaldi immodificabili nel corso dei secoli e che costituiscono in modo perenne la trama e l’ordito della dimensione psichica e spirituale dell’essere umano.

Il fuoco e la luce e la parola nella Divina Commedia

Il fuoco e la luce sono una parte essenziale del Poema Dantesco, tanto che l’Opera si dissolverebbe laddove fossero eliminati dal testo. L’intero corpo di essa vive precisamente in funzione di questi due elementi. Dante attribuisce ad entrambi un valore simbolico sconfinato, fino a che il fuoco diventa luce, il fuoco e la luce diventano parola e la parola diventa fuoco e luce.

Il fuoco, nell’Inferno, viene definito da Dante sia nella sua essenza sia nei suoi effetti di tormento: assume la forma di fulmini che si sprigionano dalle nubi rotte. Il tratto specifico della 1° Cantica è che, il fuoco c’è, ma non è visibile, non infrange le tenebre dell’abisso della dannazione eterna, che resta sempre oscuro. Nel Purgatorio, invece, il fuoco e i colori della vita diventano lo splendore della redenzione. Nel Paradiso esso si fa luce ed esprime la gloria e l’amore eterno (Magistretti,1888, p.167) ; infatti, metafore e simboli si fondono nel fuoco della carità e nella luce della verità divina in modo da realizzarsi in uno stato sacro e la fede diventa la via per ascendere alla contemplazione della verità eterna. Il fuoco è considerato da Romano Guardini[3] come strumento di pena, di purificazione e di gloria (1967) diventando redenzione e luce mistica nel Purgatorio, quest’ultima, espressa nella sua forma più elevata nel Paradiso (Magistretti, cit, p.15).

La rappresentazione della Geenna e del fuoco come simboli dell’Inferno è un esito tipicamente cristiano. Secondo le parole di Gesù «Se la tua mano [poi: il piede e l’occhio, nda] ti è di scandalo, tagliala! È meglio per te entrare monco nella vita, che andare con tutte e due le mani nella Geenna, nel fuoco inestinguibile» (Mc 9,43-48). Al momento del Giudizio finale agli empi è riservata questa minaccia di Cristo: «Andate via da me, o maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e i suoi seguaci» (Mt 25,41). Analoga immagine sussiste anche in San Paolo, che destina a «essere bruciata» l’opera malvagia, perché «(nda, Il Giudizio finale) la svelerà quel giorno che si manifesterà col fuoco, e il fuoco saggerà quale sia l’opera di ciascuno» (1Cor 3,13-15). San Giacomo, nella sua lettera, propone alla nostra vista il peccato di lingua come un baluginio delle fiamme infernali: «Anche la lingua è un fuoco! […] essa brucia la ruota della nostra vita ed è poi bruciata essa stessa nell’inferno» (Gc 3,5-6). L’Apocalisse amplierà il significato dell’immagine, trasformando gli inferi in uno «stagno di fuoco e zolfo», ove sono confinanti Satana, i falsi profeti, la morte, i vili, gli increduli, gli abietti, gli omicidi, gli immorali, i fattucchieri, gli idolatri e tutti i menzogneri (cf Ap 20,10.14; 21,8). Il fuoco nella Bibbia è un simbolo divino, ma esso si manifesta anche come parola che detta a Mosè le tavole della legge, come la stessa teofania attesta con il roveto ardente del Sinai. Cristo dichiara: «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e vorrei davvero che fosse già acceso!» (Lc 12,49). Il fuoco è, inoltre, anche il simbolo dello Spirito Santo, come si verifica nella Pentecoste e la Spirito Santo consente agli apostoli di parlare le diverse lingue dei popoli.

Nel caso dell’Inferno, però, è proprio il fuoco divino a rivestire anche un’altra funzione, facendoci scoprire un’immagine diversa di Dio da quella corrente: non è solo il Salvatore, ma è anche il Giudice che non ignora, anzi, realizza le esigenze della morale. Il fuoco diventa quindi contemporaneamente sia amore di Dio, sia Giustizia divina, sia Etica per l’uomo. Ed allora l’Inferno può essere interpretato altresì come una modalità manifesta ed efficace per rivelare il Giudizio divino sul male. “Il Signore è il fuoco e, perciò, non può essere manipolato come a noi più piace, non è riconducibile alle nostre contraffazioni e ai nostri diversivi. È, certo, fuoco di amore e di passione profonda, riscalda i cuori e scioglie il gelo delle anime infelici, ma è altresì fuoco che scotta chi tenta di afferrarlo o spegnerlo. La Geenna con il suo ardente focolare è, quindi, il simbolo dell’agire giusto di un Dio libero e ben deciso a ingaggiare con il male la sua lotta vittoriosa” (Guardini,cit.).

Il Purgatorio rappresenta un passaggio mediano fra l’Inferno e il Paradiso, ed è così anche per il concetto di fuoco. Nella Sacre Scritture ci sono solo due accenni a questa parte intermedia dell’aldilà. Nel secondo libro dei Maccabei (12,43-45) si afferma la potenza dell’intercessione per i morti tramite preghiere e, nella Prima lettera ai Corinzi di San Paolo (3,15), questi spiega che la salvezza arriverà attraverso il fuoco: lo stesso elemento che di solito associamo all’Inferno nel nostro immaginario. Seguendo “La preghiera per l’espiazione dei peccati dei defunti”, letta da Georg Ratzinger, allora Benedetto XVI, in occasione dell’Udienza Generale del 12 gennaio 2011, certe immagini inadeguate sul Purgatorio, e sul suo significato storico, possono essere superate rivisitando il pensiero di S. Caterina da Genova († 1515) riportato nel Libro de la Vita mirabile et dottrina santa. In esso è contenuta un’utile et catholica dimostratione et dechiaratione del Purgatorio (Ibidem, Genova 1551), il cui estensore finale fu il confessore della santa, il sacerdote Cattaneo Marabotto. Nella visione di Caterina – afferma l’allora Papa – «… il purgatorio non è presentato come un elemento del paesaggio delle viscere della terra: è un fuoco non esteriore, ma interiore. Questo è il purgatorio, un fuoco interiore. La Santa parla del cammino di purificazione dell’anima verso la comunione piena con Dio, partendo dalla propria esperienza di profondo dolore per i peccati commessi, in confronto all’infinito amore di Dio (…)”. L’anima – dice ancora Caterina – “si presenta a Dio ancora legata ai desideri e alla pena che derivano dal peccato, e questo le rende impossibile godere della visione beatifica di Dio”. Ella afferma dunque che Dio è così puro e santo che l’anima con le macchie del peccato non può trovarsi in Sua presenza. “L’anima è consapevole dell’immenso amore e della perfetta giustizia di Dio e, di conseguenza, soffre per non aver risposto in modo corretto e perfetto a tale amore, e proprio l’amore stesso a Dio diventa fiamma, l’amore stesso la purifica dalle sue scorie di peccato» (Ratzinger, 2011) .

Anche Dante rientra in questa linea di ricerca interiore. Uscito dall’Inferno, appare la luce, che lo colpisce come se fosse riflessa, in modo

come quando da l’acqua o da lo specchio

Salta lo raggio a l’opposita parte

Salendo su per lo modo parecchio […]

Per che a fuggir la mia vista fu ratta.

(Purgatorio, XV,16-23)

Egli chiede a Virgilio che cosa sia quel fulgore e questi lo invita a non meravigliarsi, se la vista degli angeli ancora lo abbaglia, come fa quel messo celeste (L’Angelo della Misericordia) che li invita a salire. La Misericordia appartiene alla polarità degli opposti Giustizia–Misericordia (Guggenheim,2016), e simboleggia l’amore senza limiti di Dio che aiuta il peccatore a redimersi delle sue colpe. Virgilio spiega che ciò è dovuto al fatto che la natura umana del poeta non gli consente di fissare lo sguardo nei messi celesti, proprio come non può guardare direttamente il sole che li colpisce di fronte. L’ingresso nella terza cornice degli iracondi promuove un altro incontro di Dante con il fuoco nel Purgatorio. Per il poeta la mansuetudine deve aprire il cuore alle acque della pace, che sono in grado di estinguere il fuoco dell’ira punita in questa cornice.

Nel Paradiso, il fuoco e la luce diventano dominanti. I due termini, a volte differenziati e a volte fusi tra loro, completano l’idea stessa teologica e poetica di Dante. Empireo, infatti, significa sia pieno di fiamma, ma anche luminoso per fuoco o ardore d’amanza e di carità (Convivio, 1,3, o.), ove tutto è luce ed amore (Paradiso, Canto XXVIIº, v. 112; Canto XXXº, v. 3). L’Empireo, nel quale fissano i loro occhi le anime dei beati, è l’Essenza stessa Divina: Trina Luce in unica stella. Nel Paradiso assistiamo quindi a un trapasso dall’elemento fuoco all’elemento luce, caratterizzato da una relativizzazione della presenza del fuoco, che circoscrive ciascuna delle sfere celesti, con una sempre maggiore presenza della luce. Per Dante stesso la Vergine è la Pacifica Orifiamma[4], a causa dell’aureo fiammeggiare del suo splendore. Le fiamme celesti[5], cioè gli spiriti, perdono del loro splendore al fiammeggiare dell’amore della Vergine, coronata fiamma (Magistretti, 1888).

Lungo questo cammino due sono le beatitudini che l’uomo può raggiungere, come spiega lo stesso Dante: una è la beatitudine di questa vita che si configura come Paradiso Terrestre e consiste nella attuazione della propria virtù; l’altra è la beatitudine della vita eterna, che si configura come Paradiso Celeste, e che consiste nella fruizione eterna dell’immagine di Dio (De Monarchia, libro III).

Il fuoco e la luce nella psicologia analitica di Carl Gustav Jung.

Jung nelle sue opere non si riferisce mai a Dante. Cita invece spesso Goethe, Shakespeare ed altri scrittori del Nord Europa. Per ciò che riguarda i simboli del fuoco e della luce, Jung sostiene, ad esempio, che in certe fiabe primitive il vecchio, cioè il Senex, viene identificato con il sole, simbolo di fuoco e di luce. In una fiaba nord-americana citata dall’autore, il vecchio è uno stregone che possiede il fuoco (Jung, 1980, p.91-92; p.217). L’Anticristo, ossia il diavolo o figlio del diavolo, e quindi Tifone, ha nel Nord la sua dimora di fuoco (Jung, Opere, volume IX**, p. 92).

Continua Jung, riportando le parole di Cristo: “L’occhio è la luce del corpo, ma se il tuo occhio è cattivo o lo diventa, anche il tuo corpo diventerà tenebroso e tramuterà in tenebre la luce che è in te” (Ibidem, p.124). Nel 17º capitolo (Jung, 1988) l’autore afferma: “Il Regno di Dio è già in mezzo a voi e da esso si può vedere con chiarezza che la conoscenza della luce nell’uomo deve provenire in primo luogo dal suo intimo e non venirvi immessa dall’esterno”. Jung cita Nietzsche che nel “Così parlò Zaratustra” scrive: “Da solo vai sul cammino che porta a te stesso! […] Tu devi voler bruciare te stesso nella tua stessa fiamma: come potresti voler rinnovarti, senza prima essere diventato cenere?” (Jung,1988). L’autore afferma, dunque, che l’uomo, durante tale lavoro interiore, deve perciò essere scaldato nella sua struttura interna sino a raggiungere il massimo grado di incandescenza, al fine di sollevarsi nella dimensione dello spirito. Lo psicologo analista riprende da Cristianos il paragone tra il Centro Interiore e il Paradiso con i suoi quattro fiumi e l’idea di Michael Mayer che nel centro si trova il punctum indivisibile, che non è ulteriormente scindibile, ma dura eternamente. Ravvisiamo in questo elemento puntiforme rilevato da Jung una similitudine estremamente vicina al concetto puntiforme di Dio espresso da Dante nel Paradiso. La differenza sta nella collocazione di tale elemento: Jung ne fa un elemento antropologico, quindi immanente, tanto che, sempre secondo il suo orientamento immanentistico-antropologico fa riferimento anche a Benedictus Figulus, che individua questo centro interiore all’uomo come domus Ignis, cioè casa del fuoco, il cui punto mediano è il fuoco (Jung,1988, p.190). Come vedremo, Dante invece colloca il suddetto elemento puntiforme in uno spazio molto lontano dal mondo terreno, seguendo una concezione di Dio di natura trascendente.

Ugualmente per Jung, come per Dante, esiste un parallelo tra fuoco e parola. L’autore cita diverse fonti. Secondo un racconto indiano dalla bocca deriva persino la più importante scoperta dell’uomo primitivo, cioè quella del fuoco. Così nell’Aitareya-Upanisad è detto: “traendo allora dalle acque Purusa, lo foggiò. Indi lo covò. E, avendolo covato, gli divise in due la bocca, così come si spezza un nuovo: dalla bocca venne la parola, dalla parola il fuoco” (Jung, 1988, p.189-190). Anche nell’Avesta e nei Veda il fuoco è il messaggero degli dei.

Nella Bibbia, Mosé riceve da Dio le Tavole della Legge tramite la parola di Dio nelle sembianze del Roveto Ardente, che brucia perennemente. Ecco un’altra equivalenza tra parola di Dio e Fuoco. In seguito è anche detto che è il fuoco a divenire parola.

Sempre per Jung, l’associazione, strana a prima vista, di bocca, fuoco e parola si riscontra in altri punti della Bibbia. Riassumendo:

1) Isaia 30. 27: “…il nome del Signore. […]. Le sue labbra sono piene di indignazione, la sua lingua è come fuoco divorante.”

2) Salmo 29. 7: “la voce dell’eterno fa guizzare fiamme di fuoco”.

3) Geremia 23. 29: “La mia parola non è essa come il fuoco?”

4) Atti degli apostoli 2. 3 e 4: “E apparvero loro delle lingue come di fuoco che si dividevano… E tutti furono ripieni dello Spirito Santo, e cominciarono a parlare in altre lingue (glossais).”

5)  Giacomo 3.6, che dice in senso negativo: “Anche la lingua è un fuoco, è il mondo dell’iniquità”;

6) Similmente è detto del malvagio nei Proverbi 16. 27: “sulle sue labbra c’è come un fuoco divorante”.

Il nesso della bocca con la favella e il fuoco è dunque inequivocabile, conclude Jung. La funzione dei significati espressi da “risuonare, parlare, splendere, fuoco” fa pensare all’esistenza di un’identità preconscia tra di loro. I due fenomeni hanno qualcosa in comune.

La psicoterapia analitica è una cura basata sulla parola, sull’efficacia della parola addirittura sul corpo (vedi la cura dei sintomi psicosomatici). È la Talking Cure[6] di Freud. Presupposto della psicoterapia analitica è il potere trasformativo della parola, ma questa trasformazione[7], nella sua accezione compiuta, è un evento prodotto dal fuoco. In questa sinossi tra parola e fuoco consiste l’aspetto, o meglio, la dimensione sacra del rapporto psicoterapeutico analitico come spazio “religioso”, in cui scienza della ragione e scienza della fede si realizzano come dimensione spirituale della cura. Anche l’archetipo dell’Anima junghiano ritrova nel simbolo della Vergine Maria Orifiamma[8], a nostro parere, l’espressione più alta e più profonda della spiritualità dell’uomo. La verginità è quella che Bion (1970) individua nella dimensione definita da mastro Eckhart come Fondo dell’Anima. Questo fondo, vergine, cioè non contaminato dalle preoccupazioni e dagli attaccamenti della vita quotidiana dell’individuo, è di assoluta purezza e abita l’essere umano nella sua più profonda unità interiore, al di là dell’inconscio freudiano e dello stesso inconscio junghiano (Grassi, 2012).

Tornando a Dante, la Mazzarella (1991) ha già accostato il percorso dantesco al percorso individuativo di Jung. Per quanto concerne l’Inferno e il Purgatorio l’autrice interpreta queste due fasi come momenti di confronto del poeta con gli archetipi, al pari del processo di individuazione così come inteso dallo psicologo analista, laddove si procede attraverso un lungo percorso gerarchico che va dalla analisi della Persona, archetipo della maschera sociale che l’individuo adotta nei suoi rapporti con il mondo, all’esplorazione e all’integrazione dell’Ombra per giungere all’incontro con l’archetipo dell’Anima, archetipo inteso sia come sviluppo interiore psichico sia come apertura verso il Selbst. Ritroviamo insomma l’Anima-Beatrice. L’integrazione con l’Anima per Jung esprime un archetipo con un duplice versante, più chiaro se ad esempio immaginiamo una clessidra con apertura in basso tesa alla raccolta armonica di tutte le istanze della personalità e di tutti gli archetipi succitati, e con apertura verso l’alto, cioè verso la spiritualità transpersonale, il cui limite sarà l’inconscio collettivo nella sua duplice accezione di corredo predisposto nella psiche di elementi archetipici e al tempo stesso di apertura al transpersonale inteso come Anima Mundi, concetto religioso di tipo immanentistico.

Parlare dell’Inferno come confronto con l’Ombra, archetipo del male dentro di noi, significa riferirsi ad un cammino che implica il confronto quindi con tutte le nostre istanze più oscure.

Le anime dei dannati all’Inferno descritte da Dante sono, per sua stessa definizione, prive della capacità di filosofare. Per filosofare è facile intendere la capacità di autoriflessione. Sul piano psicologico analitico questa incapacità si rivela soprattutto nei concetti psicoanalitici di coazione a ripetere (Freud, 1920, p.193) e di mancanza di mentalizzazione (Fonagy, 2016). Nella coazione a ripetere, quest’ultima nei dannati assume la forma di tratto caratteriale, inconsapevolmente egosintonica, e per questo motivo non riesce ad essere messa sotto lo sguardo dell’auto esplorazione in forma oggettiva. Nella mancanza di mentalizzazione invece si evidenzia l’incomunicabilità fra la sfera emotiva e quella cognitiva e l’impossibilità di pensare i pensieri (Bion, 1962): i tratti, rigidi, ripetitivi prevalgono sul significato delle relazioni e sull’emotività che le muove e che necessitano di discrezionalità.

Sappiamo che Beatrice accompagna Dante in questo lungo viaggio, ma sarà soltanto S. Bernardo di Chiaravalle che funzionerà nell’ultima parte del viaggio come il Selbst per Jung, cioè come mediatore per l’accesso a Dio. Ed è proprio in questo passaggio che si evidenzia la differenza cui abbiamo accennato e che noi riteniamo fondamentale tra la visione di Jung e quella del Sommo Poeta: per Jung si tratta del Dio immanente, mentre per Dante si intende il Dio trascendente. In altri termini, è proprio qui che a nostro avviso si manifesta la maggiore contraddizione teorico clinica di Jung. L’archetipo del sé, che lega inscindibilmente l’uomo all’Unus Mundus, l’inconscio collettivo, ha una collocazione che rimane essenzialmente antropologica. Jung ne fa però l’approdo ultimo per l’uomo. Ma se guardiamo alla tappa finale del viaggio di Dante, nello specifico al momento in cui compare Bernardo di Chiaravalle, simbolo cristiano dei più alti livelli di illuminazione mistica, non possiamo non rilevare che la sua essenza è umana, quindi antropologica, ma che fa da mediatore per l’accesso dell’uomo a Dio, chiaramente trascendente nella Visione di Dante, poiché Dio, cioè l’Empireo, o Punctum Indivisibile, nella sua sussistenza non fa parte del mondo terreno.

Abbiamo già in altra sede affrontato la visione immanentistica di Jung attraverso la lettura del Libro Rosso, diario personale dello psicologo analista scritto approssimativamente dal 1913 al 1930, in occasione della sua pubblicazione in Italia nel 2009 (Grassi, Berivi, 2011). In particolare, tra le altre cose, evidenziammo proprio la scelta di Jung fra Elia e Salomè, in favore di quest’ultima. Scrivemmo allora: “Abbiamo visto che Salomè rappresenta sia l’istintualità, come mero soddisfacimento del desiderio, sia la distruzione delle forme e dei contenuti del Logos, come raffigurato dalla decapitazione [la testa di Giovanni Battista]. “È cieca perché non vede il significato delle cose” (Jung, 1961:210). Se interpretiamo dunque la fanciulla, in termini matriarcali, come la disposizione dell’Anima, sia femminile che maschile, a stabilire una relazionalità indifferenziata e senza confini, dunque promiscua e incestuosa, possiamo vedere in lei la rappresentazione di una sempre più forte tendenza odierna ad annullare nei rapporti limiti, ruoli, nella cieca sussistenza di un marasma affettivo dove regna l’indistinto e il molteplice. Quella che noi chiamiamo “mera relazionalità”, nella sua unilateralità, si distende allora esclusivamente lungo la dimensione orizzontale dell’esistenza umana, senza i confini previsti dalla dimensione verticale del significato, e diventa una forma di esercizio del potere” (Berivi, 2011, p.152-153). La scelta della trascendenza si sarebbe manifestata invece nell’adesione di Jung al messaggio di Elia, la metafisica teologica (Grassi, 2011), ma l’atteggiamento immanente del suo Io lo porta a privilegiare il rapporto con Salomè, simbolo della fenomenologia antropologica, facendo assurgere quindi la fenomenologia alla dimensione metafisica, fenomenologia il cui principio ultimo è il metodo. Ogni concettualizzazione si evince dall’osservazione esteriore del fenomeno, scissa dal proprio significato simbolico, che lascia lo spazio alle tante interpretazioni quanti sono i metodi, cioè i criteri interpretativi. Questi ultimi, alla fine, si equiparano, come nel relativismo, oppure possono giungere a forme estreme di falsificazione, laddove anche i fatti abbandonano la temporalità e la verificabilità[9]. In fondo, sebbene Jung nel Libro Rosso comunichi al lettore, con un inciso piuttosto breve, tuttavia molto chiaro e onesto, che la scelta che compie a seguito della sua indagine interiore sia una scelta del tutto individuale propria, soggettiva, personale, e non una scelta assoluta, valida per tutti, egli indica comunque una strada, che si attualizza precisamente nella sua teoria e nei suoi scritti, come stiamo cercando di dimostrare. Questa strada conduce a preferire la molteplicità fenomenologica delle esperienze e delle conoscenze umane (Salomè) all’esperienza e alla conoscenza nell’unitaria prospettiva di fondo di un atteggiamento eticamente religioso (Elia). Il primato, dunque, della fenomenologia immanentistica sulla posizione metafisica unitaria della trascendenza, con le ovvie ricadute[10] sul piano antropologico cognitivo ed etico.

Conseguentemente, il Sé Junghiano sostituisce il Dio metafisico con il superuomo antropologico (übermensch), come prima di lui avevano fatto Nietzsche (Jung,1988) con Zaratustra da una parte e Comte (De Lubac, 1900 p.132) con il Grande Sacerdote dell’Umanità che, nelle intenzioni esplicite degli autori, si sostituiscono a Dio. Il fallimento storico del tentativo di concretizzazione di entrambe queste forme di superuomo, la caduta del nazionalsocialismo e successivamente quella del socialismo reale, ha condotto inevitabilmente l’uomo moderno al cospetto del fallimento di questa concezione del Sé. Il disperato tentativo di un riferimento transpersonale valido in tutti i sensi, cognitivo, emotivo, sensoriale, comportamentale, partorisce quindi un nuovo principio ispiratore, il metodo, in particolare il metodo ermeneutico, che viene posto alla base di tutte le scelte inerenti a verità, bene, giustizia, bellezza. Purtroppo, secondo noi, è l’uomo che può cambiare metodo ermeneutico e, quindi, proprio nella prospettiva della visione classica greca del metodo, è sempre l’uomo che può cambiare il Dio del quale seguire la processione, immagine simbolica formidabile del concetto di processo. Sappiamo come Jung prediliga in genere rappresentare i concetti con delle immagini, e nel caso del metodo faccia riferimento alla molteplicità fenomenologica delle immagini del pandemonio. Infatti alcuni epigoni junghiani sono giunti addirittura parlare, nei tempi passati, del mito dell’analista, intendendo per mito quel pattern di organizzazione interna del sistema di verità-valore-etica-bellezza che segue una certa specifica “veduta”, rappresentata dal dio che si decide di seguire nella processione di uno di questi archetipi della mente. È proprio questa conclusione, anche di Jung, che predispone le basi per una siffatta teorizzazione della personalità dell’analista, la quale lascia però, a nostro modo di vedere, uno spinoso interrogativo: può una singola veduta essere sufficiente per interpretare tutti i fenomeni e gli eventi psicologici di un paziente, in assenza di un riferimento trascendente unitario che sia al di sopra di tutte le singole vedute e le possa illuminare tutte con la sua luce unitaria? Non sarà quello il limite dell’analista che diventerà il limite di maturazione psicologica del paziente?

Potremmo dire che rispetto a Dante, Jung non riesca a fare quel salto, quell’attraversamento del muro del fuoco che gli avrebbe consentito l’accesso alla trascendenza, e quindi alla dimensione oggettiva ed unitaria della verità, dell’etica e del giusto e del bene. Romano Guardini (2012), invece, afferma che il pensiero cristiano considera fondamentale la creazione e concepisce una differenziazione totale tra il creatore e la creatura, espressa con la formula che “l’atto creatore traduce la creatura dal nulla nella realtà; la sua partecipazione a Dio consiste in un rapporto di esemplarità” (cit: 464).

Per quanto concerne la reazione degli uomini a questo concetto unitario della verità Dante fa due affermazioni[11] che sono di una profondità psicologica abissale, e del tutto attuale. L’Alighieri scrive:

“e poscia per lo ciel di lume in lume,

ho io appreso quel che s’io ridico

a molti fia sapor di forte agrume;

e s’io al ver son timido amico

temo di perder viver tra coloro

che questo tempo chiameranno antico”

(Paradiso XVII,115-120).

Con queste due terzine, Dante, nel Paradiso, precisa che la verità ha un sapore aspro per gran parte dell’umanità e che la verità, di cui si fa testimone il mistico, può essere attivatrice di persecuzione invidiosa. Vedi il destino di Cristo in campo religioso. In campo psicoanalitico Bion sosterrà la medesima tesi (Bion,1974, p.22-23; 1970, p.137-138).

In altri termini, seguendo Dante, la visione trascendente, anche nella psicoanalisi, può rispondere al nostro interrogativo, ma apre la strada ad una prospettiva di oggettività estremamente scomoda e avversata nel nostro mondo contemporaneo. Il riferimento a quest’ultimo lo troviamo proprio nei versetti sopra citati.

 

Vedute convergenti tra Dante e Jung: ordine ed etica nella Divina Commedia e nella Psicologia Analitica

I versi della Divina Commedia hanno un loro ordine sequenziale che conferisce senso all’intero linguaggio simbolico che li anima. “Si licet magna componere parvis”, scriveva Virgilio nelle Georgiche[12], e se nella sequenza dei versi danteschi riusciamo ad individuare una coerenza comunicativa tramite la decodifica del linguaggio simbolico utilizzato, anche le associazioni, i sogni e i sintomi che produce un paziente in psicoterapia finiscono per essere utilizzabili ed utilizzati nella stessa maniera dei versi danteschi: un linguaggio apparentemente concreto che, liberato dalle costrizioni della coerenza dei nessi logici, può, nella sequenza simbolica inconsciamente ordinata dei suoi contenuti, essere fonte di comunicazioni che provengono dall’aldilà dell’inconscio profondo come commentario di quanto accade nell’aldiquà della coscienza ordinaria. Questo a nostro avviso è un elemento di consonanza tra i due universi comunicativi. L’invito ad associare fatto al paziente da parte dell’analista assume quindi anche il significato di un invito alla “contemplazione” del proprio mondo interiore.

Nella Divina Commedia, Dante attribuisce un peso fondamentale al concetto di ordine ed etica e conseguentemente ad una visione gerarchica del processo di ascesi spirituale: quest’ultima viene da lui proposta come “assolutamente ordinata ed esposta in una forma poetica estremamente accurata” (cit.:464 e seg.). Ciascun grado di quest’ordine è quindi simile a Dio.

L’Alighieri sviluppa con una grandissima chiarezza l’ordinamento sequenziale dei vari step per gradi, laddove ogni stadio del cammino ha una sua logica interna, procedendo linearmente dalle tenebre dell’Inferno alla luce del Paradiso. Si tratta dell’ordine che Dante definirebbe divino e che possiamo osservare, a nostro modo di vedere, anche nella sequenza delle associazioni del paziente, soprattutto in una cornice sicura caratterizzata da un contesto di regole che preservano l’ordine divino del processo analitico, laddove per divino si può intendere semmai l’universalità e la sovradeterminazione di tale ordine. Le associazioni pertanto, benché definite “libere” da una visione unilateralmente cosciente e razionale, di fatto non sono affatto libere; la loro sequenza non obbedisce certo al principio di causa – effetto, ma ad un altro principio ordinativo, un ordine associativo interno che obbedisce alle leggi della analogia e della contiguità sequenziale, sebbene nel loro contenuto manifesto possano tradire apparenti contraddittorietà, incongruenza, disordine. In realtà rappresentano l’espressione di una comunicazione simbolica, in cui la successione delle comunicazioni può poi essere tradotta nell’ordine della logica razionale dell’emisfero sinistro.

La natura divina di questo ordine viene enfatizzata da Dante in un passaggio straordinario del Paradiso:

“e cominciò: “Le cose tutte quante

hanno ordine tra loro, e questo è forma

che l’universo a Dio fa simigliante.

Qui veggion l’alte creature l’orma

de l’etterno valore, il quale è fine

al quale è fatta la toccata norma.

Né l’ordine ch’ io dico sono accline

tutte nature, per diverse sorti

più al principio loro e men vicine”.

(Paradiso I, 103-111)

Non a caso Dante parla dell’ordine in modo siffatto nel Paradiso. Nella prospettiva di una lettura di carattere simbolico, l’ordine fa parte di una condizione paradisiaca, ed è inoltre molto vicino a Dio, ove la verità è quel raggio di luce che fa sì che essere equivale a essere vero, buono e dotato di significato. Secondo Dante quindi la natura religiosa caratterizza il mondo di per sé, in senso oggettivo; analogamente l’ordine dell’universo non è espressione di un fatto meccanico, ma dell’intenzione stessa di Dio. Per contro, scrive Guardini: “…l’uomo moderno non vede il mondo in questo modo perché così esso è, ma perché così egli vuole vederlo, e in base a questa premessa compie una selezione” (cit:480).

Dal canto nostro, troviamo un’ulteriore forte assonanza tra quanto scrive il teologo italiano e quanto clinicamente osserviamo in persone che si sottopongono ad una psicoterapia. Guardini sostiene che uno dei problemi del futuro, su cui sarà indispensabile decidere, sarà appunto se riconoscere il bene non come una caratterizzazione dell’esistenza messa in piedi dall’uomo, ma come la premessa costitutiva oggettiva, presente nell’essere stesso nell’atto della realizzazione della vita (cit: 480. Analogamente, secondo quanto prevede il modello clinico adottato da noi psicologi analisti ad orientamento comunicativo, riteniamo che l’inconscio profondo ci informi della verità sulle motivazioni comportamentali nostre nei confronti degli altri e degli altri nei nostri confronti (Langs, 1998). Infatti l’inconscio profondo, come dichiara apertamente anche uno studioso neurocognitivo, S.W. Porges (2017), percepisce, conosce e valuta le informazioni provenienti dalla nostra interiorità, dal mondo e dall’universo umano che lo circonda, in un momento che precede di gran lunga quello della scelta cosciente etica. In sintesi Porges finisce vieppiù per confermare che l’etica ha delle radici neurobiologiche che ne giustificano quindi una sussistenza oggettiva, quale potenzialità di tutti gli esseri umani. In altri termini, è un’attività veritativo-etica che è del tutto indipendente dalle scelte consce e che ci dice come effettivamente le cose stanno e non come vogliamo vederle. La forte assonanza tra le due visioni, quindi, diventa evidente sia nell’ordine di successione nel cammino psicologico e spirituale dell’uomo sia nella gerarchia dei valori che egli è chiamato a realizzare. Infatti per quanto riguarda l’ordine sequenziale del percorso, questo ordine viene indicato proprio dalla concettualizzazione da parte di Jung del cammino con la dizione di processo di individuazione. La processualità ne rappresenta precisamente l’aspetto ordinativo.

In definitiva, Dante definisce le stelle come “vedute”, cioè punti luminosi di consapevolezza (Paradiso, canto II°, v. 115), della realtà. Jung identifica nelle stelle visibili del cielo notturno dell’inconscio delle isole luminose di consapevolezza (Jung,1988, p.205) In un linguaggio più legato e orientato al metodo clinico della psicoterapia analitica, Langs (1998) individua nell’inconscio profondo una attitudine percettivo-cognitiva, misconosciuta sia dalla psicoanalisi classica sia da quella delle relazioni oggettuali. Per Langs, come per Jung, l’inconscio profondo ci offre la sua “veduta” su tutto quanto ci accade o poniamo in essere nella nostra vita sia ordinaria che extra ordinaria. Jung sostiene che esiste una consapevolezza inconscia, da lui definita come “Sole di mezzanotte” (Jung,1988, p. 83, n.14), di quello che è il processo di individuazione che sta caratterizzando il cammino analitico del paziente. Tutto ciò ci sembra confermato dai lavori di studiosi come la Bucci (1997a) e Porges (2017). Con riferimenti neuroscientifici e neurocognitivi, la prima, focalizzando la sua attenzione sul sistema limbico sotto corticale e la sua attività di produzione di schemi emotivi simbolici, il secondo con il concetto della neurocezione e la sua attenzione al sottosistema polivagale appartenente al sistema nervoso neurovegetativo, offrono delle scoperte che confermano sia l’intuizione poetica di Dante, cioè le stelle come vedute dell’aldilà, se per aldilà intendiamo l’inconscio, sia quelle citate di Jung e di Langs.

I tipi e le funzioni psicologiche del pensiero Junghiano come forme archetipiche dei trascendentali filosofici di S. Tommaso D’Aquino nella relazione terapeutica.

Vorremmo infine affrontare un’ultima correlazione fra Dante e Jung, confrontando i trascendentali del Poeta, che sono attinti dal pensiero filosofico di San Tommaso D’Aquino, con la teoria dei Tipi psicologici di Jung, al fine di chiarire come a nostro modo di vedere si possa ritrovare un’affinità fra una visione trascendente ed una psicologia veritativa.

L’essenza dell’Empireo viene definita da Dante come “luce intellettual, piena di amore…” [Pd 30-40]. Ai due fenomeni di amore e luce si affianca, come terzo, la bellezza. Nella vita conoscitiva, ciò che per l’occhio è memoria e fantasia, si prolunga nella luce, nella vita del sentimento e della volontà, nell’amore e nell’etica; la memoria e la fantasia particolarmente si prolungano invece nella bellezza. Verità, bontà, bellezza e intuizione dell’Unum sono in effetti i quattro trascendentali della visione filosofico-metafisica di San Tommaso d’Aquino e della successiva filosofia scolastica, che li eredita da Aristotele. Le nozioni di bonum e di verum, e della loro identità metafisica, sono già presenti nel corpus aristotelico, anche se nel filosofo greco manca una trattazione sistematica come quella che poi elaborerà San Tommaso d’Aquino: Unum, Verum, Bonum, Pulchrum. In termini psicologici Junghiani le funzioni costitutive di questi trascendentali, intesi come vedute e forme di esperienza, appaiono essere le stesse funzioni psichiche descritte nei Tipi Psicologici di Jung (Per l’Unum l’intuizione, per il verum il pensiero, per il bonum il sentimento e per il pulchrum la sensorialità). I trascendentali, per l’Aquinate, sono precisamente quei caratteri che qualificano l’essere in quanto tale e quindi competono ad ogni ente. L’Essere per antonomasia in questa ottica è Dio nella sua trascendenza. Il trascendentale è valido e applicabile invece solo nell’ambito dell’esperienza, esprimendo la legge della conoscenza corrispondente ai diversi oggetti dell’esperienza.

Se ora noi trasferiamo il significato di questo concetto di trascendentale nella concezione archetipica di Jung, espressa tra l’altro anche nei Tipi Psicologici (Jung,1969),non possiamo fare a meno di notare che se il vero è la luce intellettuale, il buono è espressione dell’amore e la bellezza, la sensorialità è la capacità di conservare con l’immagine ciò che si è contemplato nella visione, sintesi quindi di memoria e fantasia, e l’intuizione è la percezione inconscia dell’Unum, allora è di tutta evidenza che le quattro funzioni psicologiche individuate da Jung non rappresentano altro che una ulteriore estensione antropologico-psicologica dei trascendentali suddetti.

Queste funzioni sono funzioni archetipiche, cioè costitutive dell’essenza della psiche. Una sola di esse può ad esempio caratterizzare la “veduta” principale a cui ricorre l’io della persona. La guarigione, secondo l’ottica di Jung, sarà determinata dalla integrazione di tutte le altre funzioni con quella principale. Al tempo stesso, in quanto funzioni archetipiche, poiché sono nouminose, hanno anche un versante transpersonale, che le assimila al concetto di trascendentali.

I trascendentali infatti sono antropologicamente radicati, ma poiché qualificano l’essere in quanto tale e quindi competono ad ogni ente, considerando Dio come l’Essere per antonomasia, essi sono metafisicamente e teologicamente determinati. Invece Jung, nella sua visione psicologica di natura immanentistica espressa con la concezione dell’inconscio collettivo, concetto universale ma antropologico, non può fare a meno di radicare appunto in esso anche le funzioni psicologiche, fermandosi però alla metafisica antropologizzata del Paradiso terrestre. Quest’ultimo per Jung è l’approdo finale di ciascun percorso individuativo. Infatti una volta identificato quest’ultimo con il Selbst, ne consegue che le quattro funzioni psicologiche (pensiero,sentimento,sensorialità e intuizione) sono simbolicamente rappresentate nei quattro fiumi del suddetto paradiso e possono rappresentare dei capisaldi immodificabili nel corso dei secoli.

A seguito del confronto effettuato tra le concezioni di Dante e di Jung, individuiamo nei seguenti principi anche i principi di base della psicoterapia, intesa come prodromo per uno sviluppo spirituale: ordine-verità- -etica-bene-bellezza.

L’ Ordine è l’elemento fondamentale che può essere ritrovato:

  1. a) in ambito psicoterapeutico, seguendo Langs (1998), nelle regole del setting, come espressione delle Regole di base della vita[13];
  2. b) nelle sequenze associative del paziente: il concetto di associazione libera di fatto, laddove venga effettivamente realizzata dal paziente, si trasforma in sequenza ordinata di associazioni il cui senso inconscio può essere dedotto dal terapeuta che operi con una chiave di lettura di natura simbolica delle comunicazioni inconsce del paziente;
  3. c) nella gerarchia dei valori-disvalori che il paziente incontra nel suo viaggio interiore (Persona, Ombra, Anima, Personalità Mana, Selbst).

La verità, l’etica, l’estetica e il bene non sono quindi soltanto i trascendentali di una filosofia espressa in poesia da Dante. Sono anche delle categorie a priori di esperienza e conoscenza, nell’ottica junghiana, e possono rappresentare le funzioni psicologiche di una terapia che si fondi su corrispondenti archetipi: pensiero, sentimento, sensorialità e intuizione. Ma sono anche gli obiettivi che una psicoterapia, analiticamente strutturata in senso comunicativo, intende raggiungere tramite il linguaggio simbolico dell’inconscio profondo. Presupposto di tutte queste considerazioni è che l’inconscio profondo abbia delle attitudini di conoscenza della verità superiori a quelle della coscienza dell’io (ancora oggi non del tutto riconosciute), di valutazione etica delle scelte effettuate in funzione di questa conoscenza, di rappresentazione significante attraverso quelli che Langs definisce “derivati” e di realizzazione di ciò che l’inconscio profondo medesimo propone come “bene” per il paziente.

È ovvio che per il paziente porre in essere questo cammino rappresenti un vero e proprio mutamento catastrofico (Bion,1974), abituato dalla sua coscienza ordinaria alle falsificazioni dovute a interpretazione della realtà unilateralmente affidate all’emisfero sinistro (Grassi, 2012), alla strutturazione di falsi ricordi della sua vita passata e a un’etica del tutto rispondente alle suddette mistificazioni, senza alcun riguardo all’oggettività delle Regole di base della vita (Langs, 1998). Affinché possa realizzare questo risultato l’analista deve essersi sottoposto ad una analoga disciplina psicologica, e successivamente spirituale, tramite una sua analisi personale. Da questo punto di vista Bion (1965) suggerisce un cammino che indubbiamente sarà, per l’analista medesimo, segnato dal fuoco e dalla luce. Il fuoco sarà per lui il tormento delle sue coazioni a ripetere, ma potrà essere anche quello della sua redenzione dalla dialettica degli opposti, che necessitano, step by step di una loro sintesi dissolutiva, che lo porti ad un livello superiore di maturazione psicologica. Scrive Bion ,1970, p.93 e seg.): “La prospettiva dell’essere all’unisono con zero o dell’unità con esso fa paura. […] Il centro della questione è costituito dalla natura dolorosa del cambiamento orientato nel senso della maturazione. […]”. Il desiderio, la memoria e la comprensione della coscienza dell’io hanno quindi la funzione specifica di falsificazione propria delle credenze che servono per tenere a distanza quello stato della mente che l’autore definisce di Fede. “Ricordo” serve per adagiarsi su ciò che non è significativo, eliminando ciò che è invece importante. Anche “desiderio” comporta il subentrare nello stato mentale dell’analista di qualcosa che gli permette di non vedere il punto centrale: quell’aspetto di zero presentato continuamente dall’ignoto e dall’inconoscibile. Bion scrive che le trasformazioni in zero di K (i suoi pensieri, memoria, desideri coscienti, aspettative relative al futuro e ricordi del passato) sono vissute da tutti, quindi anche dall’analista, come un grave attacco all’io, fino a quando non si sia instaurato un nuovo stato mentale: lo stato di Fede (Bion,1970, p.39-58).

K: Questo è il punto “cieco” che deve essere illuminato dalla “cecità” (Bion,1970, p.94) È un punto cieco perché serve per oscurare all’analista i significati profondi che emergono dall’inconscio, in genere disturbanti per equilibrio psichico vigente (Bion,1965, p.219-220). Deve essere illuminato dalla cecità perché soltanto un’operazione di disciplina spirituale, come ad esempio quella delineata dalle “notti oscure dell’anima” di cui parla San Giovanni della Croce (Bion,1965, pp.219-220), può eliminare la loro funzione di accecamento. Solo quindi un lavoro di accecamento di percezioni coscienti, ricordi e desideri (S. Giovanni della Croce, 1978) può desaturare la preconcezione, rendendola una forma vuota assimilabile junghianamente al concetto di “archetipo come forma vuota”. In questo modo essa può percepire ed esperire elementi del mondo interiore che non possono essere sperimentati dai sensi ordinari”. È interessante l’uso della metafora della luce e della cecità da parte dell’autore, che richiama esattamente la nostra attenzione sulla luce che caratterizza anche il percorso psicologico e spirituale di Dante. Vieppiù per memoria Bion intende esclusivamente l’esperienza correlata ai tentativi consci di richiamare i ricordi. Questi tentativi sono ancora una volta la manifestazione della paura dell’intrusione di altri elementi destabilizzanti nello stato mentale dell’analista: “incertezze, misteri, dubbi”[14]. Bion propone in alternativa lo stato di memoria-sognante come “la stoffa di cui è fatta l’analisi” (Bion,1970, p. 95). L’autore sostiene che l’esperienza della seduta riguardi del materiale simile ad un sogno, nel senso che sia il sogno sia il materiale con il quale analista si confronta “partecipano di qualità oniriche (dream-like). Al fine di rendere più accessibile questo linguaggio un po’ criptico di Bion, ci sembra opportuno sottolineare che il materiale di cui parla l’autore sono le associazioni del paziente, i sogni, i lapsus, gli atti mancati, il linguaggio del suo corpo. Le associazioni ad esempio possono riportare fatti concreti della vita quotidiana attuale del paziente (così anche il contenuto manifesto dei sogni), ma tutte queste comunicazioni, per essere veramente comprese, necessitano appunto di una “memoria sognante”, cioè di una chiave di lettura simbolica che permetta all’analista di intenderle come una comunicazione in codice di ciò che il paziente sta vivendo in quel momento insieme con lui. Si tratta di una comunicazione nel codice simbolico di ciò che è inerente specificamente alla vera natura della relazione che si sta sviluppando in quel momento tra lui e il paziente. L’analista può raggiungere questo livello “visionario” solo quando è riuscito a sviluppare non una conoscenza unilaterale del transfert del paziente, in azione eventualmente in quel momento, né la conoscenza unilaterale del suo controtransfert nella dinamica degli opposti che stanno animando la seduta. Egli necessita del raggiungimento di un livello superiore di sviluppo che lo ponga al di là della dialettica degli opposti, in una dimensione interiore che gli permetta di sviluppare una Visione di ciò che sta accadendo[15]. Il sacrificio sia della memoria concreta sia del desiderio nella sua accezione concreta permette all’analista di sviluppare dentro di sé la “memoria sognante”, cioè l’attitudine alla lettura delle comunicazioni del paziente in questa ottica visionaria resa trasparente dal processo di “purificazione” che egli deve aver realizzato lungo il suo percorso di purgatorio. Per quanto concerne, ad esempio, la verità, Bion è molto categorico con l’affermare che la bugia ha bisogno di un pensatore che pensi, mentre la verità non ha bisogno di un pensatore. Si tratta di un’asserzione forte, da noi totalmente condivisa, che colloca la verità nel contesto dei dati oggettivi del mondo; tutto il resto è fatto non di verità ma di credenze, cioè di artefatti e di bugie. Afferma difatti Bion: “il pensiero vero non ha bisogno di nessuno che lo pensi: esso attende la venuta del pensatore che acquisisca significato attraverso il pensiero vero. […] [Viceversa] la bugia e il suo pensatore sono invece inseparabili. Gli unici pensieri per i quali è assolutamente necessario un pensatore sono le bugie(Bion, 1970, p.1339).

Noi spesso definiamo le bugie con il termine di interpretazioni operate dall’emisfero sinistro nell’analisi della realtà[16]. L’Interprete utilizza, per funzionare, l’emisfero sinistro, deputato alla elaborazione del pensiero cognitivo e metacognitivo (Gazzaniga,2011). Di estremo interesse è la riflessione che Bion fa sulla bugia, in particolare sul fatto che tale termine sia di solito applicato al campo del pensiero cosciente, ma che ha in realtà una controparte nel campo dell’essere: è possibile non solo avere pensieri falsi, bugiardi, ma addirittura essere una bugia, ed esserlo, asserisce Bion, preclude l’essere all’unisono con zero. Quest’altra affermazione trova una sua fondata correlazione con il concetto di archetipo di Jung: se per sviluppare una conoscenza è necessario prima fare la relativa esperienza, in ottemperanza alla definizione specifica del termine archetipo, allora diventa paradossalmente ovvio considerare che un pensiero falso, quindi una falsa “conoscenza” sia il frutto di un’esperienza di falsità realizzata da una persona che perciò diventa essa stessa una “bugia” (Bion,1970, p.159).

Conclusioni

La verità, a nostro modo di vedere, è una, non può essere molteplice. Per Dante, tante sono le credenze degli uomini dettate dalle singole “vedute” poste in modo falsificante ad occupare il punto di riferimento centrale ed assoluto che è invece il topos della luce della verità in Dio. L’eliminazione di questa prospettiva unitaria teologica, sostiene implicitamente il Sommo Poeta, lascia insaturo il bisogno di verità nella sua essenzialità e l’uomo si perde “avidamente” appresso alle singole “vedute”. Infatti Dante scrive nel Paradiso:

“Io veggio che giammai non si sazia

Nostro intelletto, se ‘l ver non l’illustra,

Di fuor dal qual nessun vero si spazia.

(Paradiso, IV, v. 124-126)

La verità, nella sua realizzazione catastrofica (Bion,1974), trascina con sé anche l’etica e il concetto di bene. L’esperienza della verità è intimamente connessa con l’esperienza della giustizia e del bene. Questa esperienza è effettuata, prima ancora della coscienza, dall’inconscio profondo. Non si tratta di considerazioni e riflessioni legate esclusivamente ad un cammino spirituale, che potrebbe essere messo in discussione da chiunque e in qualunque momento. Le ricerche neurocognitive di Porges (2017) sul sistema nervoso autonomo e di Bucci(1997a) sul sistema emotivo sub-simbolico e successivamente simbolico, hanno condotto alla scoperta che l’esercizio della verifica cognitiva della verità e del suo valore emotivo, nonché del significato etico delle informazioni che provengono dal mondo esterno e dal mondo interno, sono appannaggio dell’inconscio profondo, molto prima della stessa coscienza dell’io. Sono trasmesse alla coscienza razionale dell’io tramite appunto il linguaggio simbolico dell’inconscio profondo. Diventa a questo punto comprensibile la nostra convinzione, neuroscientificamente fondata, che l’inconscio profondo indichi alla coscienza dell’io la via della verità, dell’etica, e quindi del bene, come percorso di realizzazione della guarigione, in linea anche con Langs (1998) e con il suo profondo insegnamento.

Il concetto di libertà cambia: il paziente non viene analisi per essere libero di fare tutto ciò che vuole, che gli piace, che desidera a livello cosciente. La sua libertà riguarda proprio il suo emanciparsi dalla schiavitù dei propri desideri, dei suoi ricordi, delle sue credenze e delle conseguenti scelte cosiddette “etiche” che tengono soggiogato il suo io e i suoi comportamenti. La sua libertà consisterà nell’adeguarsi alle prospettive aperte dall’inconscio profondo o dall’opporsi ad esse, secondo il principio del libero arbitrio. Oggi sappiamo però che la vera libertà consiste nell’aderire, anche con sacrificio, alle proposte dell’inconscio profondo, perché questa adesione, superficialmente ritenuta dall’io come costrittiva (vedi le angosce di una cornice sicura nel rapporto analitico), lo riconcilierà invece con sé stesso e con la realizzazione della sua individuazione: un livello superiore di libertà dai valori del mondo che lo circonda. L’Inconscio profondo, inteso in questa accezione, indica ovviamente anche la via del bene per il paziente.

L’Empireo raffigura quel punto unico del mondo verso cui è diretta questa ricerca di libertà, punto verso il quale si apre il Fondo dell’Anima, topos antropologico in cui si realizza il rapporto tra Dio Trascendente e l’uomo. Il Fondo dell’Anima è quindi un fattore psico-spirituale che noi denominiamo l’archetipo della trascendenza, un concetto psicologico che si prolunga verso l’alto rimodulato in un concetto mistico proprio per la sua apertura alla Trascendenza (Guardini,1995, p. 174). L’ascesi verso questo topos richiede lo sforzo dell’uscita della “nube della non conoscenza” (Anonimo Inglese,1981) costituita da tutte le attività legate al mondo quotidiano e da tutte le correlate dissertazioni razionali, affinché si possa accedere alla luce interiore, il Punctum Unicum separato da qualsiasi molteplicità sia sensibile sia intellegibile; se la Trascendenza è simultaneamente fuoco, luce e parola, e se inoltre la psicoterapia è una cura fondata sulla parola e la parola è linguaggio divino, diventa comprensibile la natura non solo scientifica ma anche “sacra” della psicoterapia e della Parola dell’Inconscio nelle sue espressioni multidimensionali.

[1] Alighieri,2016

[2] Il Paradiso è sicuramente il testo meno rivisitato fra i tre, e forse il meno amato, anche perché poco adatto al palato adolescenziale che lo ha sempre dovuto studiare in un’età più alle prese con le pene dell’inferno che con le visioni ascetiche della vita e della morte e con il significato esistenziale che queste possono avere.

[3]Romano Guardini è stato un teologo italiano naturalizzato tedesco, vissuto tra il 1885 e il 1968. Scrisse moltissimo, quasi 500 saggi. Per ciò che ci interessa, scrisse partendo dai più importanti autori della cultura occidentale al fine di chiarire quale fosse il pensiero cristiano: Socrate, Agostino, Dante, B. Pascal, F. Hölderlin, S. Kierkegaard, F.M. Dostoevskij e R.M. Rilke. I suoi corsi universitari, base dei suoi scritti, attirarono un pubblico vasto di studenti, cattolici e protestanti, e anche di persone estranee al mondo universitario.

[4] Orifiamma era l’insegna guerriera condivisa da molti popoli: una bandiera con fiamma in campo d’oro, portata da un Angelo (Pecorone, 9,2). Orea equivale ad Aurea, Maria flamma ignis aeterni et aurea idest perfecta, pacifica quae facit pacem. Caldo calore, anche così la chiama Dante

[5]  Vedi Paradiso, Canto XIIº, v. 2; Canto XIVº, v. 66; Canto XXVIº, v. 2.

[6] Così la chiamava la Bertha Pappenheim, ossia Anna O, la paziente di Breuer considerata la paziente zero della psicoanalisi.

[7] Come vedremo in un prossimo lavoro (nda)

[8] La sua immagine di orifiamma le conferisce una identità anche con il fuoco e le luce: Maria è anche madre, ossia matrice, di consolazione, cioè del sole condiviso con l’uomo nella spiritualità.

[9] Pensiamo ad esempio alla realtà virtuale, quella dei social, dove i fatti, anzi le parole perdono la temporalità, possono essere scritte oggi come anni addietro, e i fatti espressi dalle parole perdono la verificabilità, ossia sono veri solo perché sono affermati.

[10]Nonostante Jung parli nel Libro Rosso di spirito del tempo, di tipo e di stampo fenomenologico, e di spirito del profondo, di tipo e di stampo eminentemente mistico religioso, in realtà finisce per avallare la sussistenza di tante verità, costitutive dello spirito del tempo e giustificate proprio dall’aver lui individuato nel cielo tante vedute, cioè tante stelle nel cielo notturno, quindi vedute spirituali, e tanti occhi di pesce nel mare profondo, quindi tante vedute emozionali.

[11] In questo il suo pensiero precorre quello di grandi psicoanalisti: Jung, Langs e Bion. Jung fa notare il sapore aspro della verità espresso dall’immagine dell’Amaritudo Maris (Jung,1988). Langs sottolinea in particolare la crudezza delle immagini interiori (1974), mentre Bion dice apertamente che coloro che si fanno portatori di verità saranno oggetto di persecuzione da parte di tutti i falsificatori della verità, e che questi ultimi sono la stragrande maggioranza degli esseri umani (1970).

 

[12] Virgilio, Georgiche “Se è lecito paragonare le cose piccole con le cose grandi”, I° secolo a.c., IV, 176.

[13]Le regole di base della vita si realizzano in psicoterapia,secondo Langs, nelle regole del setting che rendono sicura e terapeutica la cornice dove si snoda il canovaccio del transfert e del controtransfert e si attualizza il disvelamento delle angosce primarie del paziente (Langs, 2011; 1980; 1988; 1996).

[14] John Keats, lettera George e Thomas Keats, 21 dicembre 1817. In Bion, attenzione e interpretazione, editore Armando Roma, 1970, pagina 95.

[15] Per comprendere però che cosa intendiamo per Visione e per prospettiva di ordine superiore rinviamo il lettore al prossimo articolo che si occuperà del “Battesimo del fuoco” come tappa ineludibile e autenticamente significativa per il terapeuta.

[16]Questo meccanismo è stato tradotto in una immagine specifica, quella dell’Interprete, secondo il modello neuro scientifico di Micheal Gazzaniga (2011).

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