Le follie del matriarcato
Sandra Berivi – Psicologa
Psicologo Analista – Docente di Psicoterapia Dinamica
SSVPC . Università Medicina e Psicologia – Sapienza di Roma
Antonio Grassi – Psichiatra
Psicologo Analista – Docente di Psicoterapia Dinamica
SSVPC . Università Medicina e Psicologia – Sapienza di Roma
“E allora comprese tutto. E quando si fermò sul
sentiero con Hannah, sotto i giardini di Baxter’s,
e sentì la risata di Roz, capì che era una risata
beffarda. Si faceva beffe di lei, di Mary, e Mary
finalmente comprese tutto. Le fu tutto chiaro.”
da Doris Lessing, “Le nonne”, 2003
“L’asimmetria tra uomini e donne è tale che, a parte
gli psicologi e gli psicoanalisti, è raro che qualcuno
si occupi della violenza femminile. Presso le femministe
l’argomento è tabù. Rimane impensabile e impensato
tutto ciò che diminuisce la portata del concetto di dominio
maschile e dell’immagine delle donne come vittime”
da Elisabeth Badinter, “La strada degli errori”, 2003:53
Key-Words : Matriarcato – Ipercura -Violenza – Etica della Cura
*–
Introduzione
Vorremmo chiarire subito che parlare delle follie del matriarcato non significa eludere, o peggio negare, che nel mondo patriarcale le donne spesso diventino vittime, emarginate o relegate ad ambiti di sottomissione. Nondimeno, in questo scritto, vorremmo dare voce a quel sotterraneo fenomeno che emerge nel nostro quotidiano lavoro clinico, ossia svelare le innumerevoli ferali spire che le madri[1] tessono intorno ai loro figli in forma nascosta, in un mondo, il nostro, che non solo non riconosce la violenza insita in tali comportamenti, non ne coglie la follia, ma che anzi incoraggia in tutte le forme possibili: psicologiche, culturali, sociali, giuridiche, economiche. Ciò contribuisce precisamente a perpetuare uno status quo dove gli uomini possono reagire con violenza, i figli scegliere strade psicopatologiche e le donne diventare sempre più incarnate in un’immagine inevitabilmente vittimistica, che da un lato le rende continuamente preda di odiose rivendicazioni e dall’altra le condanna ad una drammatica solitudine esistenziale, a fronte però di un vantaggio secondario: essere sempre figlie bisognose di aiuto. E di come, proprio le donne potrebbero farsi portavoce di un’etica della cura, femminile e maschile, che stabilisca limiti e confini dell’agire materno e paterno per il benessere dei figli e delle famiglie più in generale.
Caso clinico
Marco ha 16 anni. Ha chiesto aiuto a gennaio 2015 di sua iniziativa ad un servizio che si occupa di minori, perché vuole andare a studiare all’estero, ma la madre si oppone e lui è stanco della sua oppressione. Il padre invece, a suo dire, lo vessa con continue regole e divieti, senza capirlo e “costringendolo” a fare, per reazione, sempre il contrario. In realtà, dall’anamnesi risulta che Marco usa anche massicciamente cannabinoidi, con conseguenze negative sul rendimento scolastico, nonostante un’acuta intelligenza e una buona formazione culturale, e sul rapporto estremamente conflittuale e aggressivo con i suoi genitori, soprattutto con la madre. Genitori che sono separati e che conducono tra loro una continua e violenta guerra sulla gestione, organizzativa ed economica, del figlio. Quando si parla dell’estero la madre gli nega ogni possibile sostegno economico, ben sapendo che il padre da solo non può sostenere tale spesa, anche perché versa alla ex moglie gli alimenti per il figlio, con l’escamotage di tenerlo un giorno in più, nonostante Marco viva al 50% con la madre e al 50% con il padre. L’odiato padre, invece, lo obbliga ad essere più autonomo, a badare di più alle sue cose, a contribuire almeno minimamente alla gestione del quotidiano, anche se poi anche lui stesso non riesce ad arginare l’ex moglie e a rappresentare per il figlio una via d’uscita alternativa vera e propria: ha un lavoro precario, ha abitudini adolescenziali, veste come un ragazzo, fatica anche a tenere ferme le regole per il figlio, verso il quale si pone spesso alla pari. Il giovane dal canto suo vorrebbe vincere una borsa di studio molto prestigiosa che lo porterebbe a completare i due anni rimanenti in Inghilterra, ma non è sicuro di farcela poiché i posti sono pochissimi. Dopo una valutazione psicodiagnostica del giovane e della famiglia, Marco intraprende una psicoterapia analitica ad orientamento comunicativo di 6 mesi (Langs, 1973-74, 1988; Grassi, 2000, 2012), svolta con una seduta settimanale e con l’utilizzo della Sand Play Therapy (Kalf, 1966). Al 4° mese circa del suo percorso, dopo aver fallito il concorso per la borsa di studio tanto desiderata e aver poi trovato una soluzione alternativa, un’altra borsa di studio sempre in Inghilterra anche se meno prestigiosa, Marco porta il seguente sogno: “Sono al mare. Sto facendo delle forme nella sabbia con molto impegno. C’è mia madre però che davanti a me, stringe il suo seno nudo facendo uscire di capezzoli acqua che copiosamente cade sulle mie forme, distruggendole.” Nella stessa notte: “Faccio il bagno con papà. Perdo sangue e affogo”. L’analista allora chiede di associare ancora sulla madre che fino ad allora era stata sempre dipinta dal giovane in modo negativo. Nelle sedute precedenti raccontava infatti, lamentandosene, che ogni volta che andava dal padre, trattenendosi magari qualche giorno in più, lei lo chiamava chiedendogli di tornare a casa, gli mandava continui sms affettuosi, scrivendo che le mancava, che non poteva stare senza di lui, che se non lo vedeva stava male. Comportamento di cui lui si rammaricava, commentando che non era normale, che gli parlava come una fidanzata, che lo faceva sentire sempre in colpa. Tuttavia, le associazioni di quella seduta svelarono qualcosa che non era precedentemente emerso così chiaramente. Marco riferiva per la prima volta di essere stato allattato fino all’età di 3 anni. Attualmente la madre lo accompagna sempre dappertutto in macchina, a scuola, dagli amici, dal medico, alle sedute. Vivendo loro due soli, lei provvede a lui in ogni suo bisogno quotidiano, lo sveglia, anche quando sta dal padre, gli porta la colazione a letto la mattina, gli compra ogni cosa voglia. Lo chiama anche al telefono più volte al giorno e lo soprannomina “il mio attore”, riferendosi alla sua attitudine a recitare la parte del bravo ragazzo con cui incanta insegnanti e coetanee[2]. Gli parla continuamente male del padre, del suo essere smidollato, poco maschio. Gli aveva inoltre comunicato da poco che si era fatta comprare una casa dal suo attuale compagno dicendo al figlio che quella era sua e che lo aveva fatto proprio per lui, per il suo futuro. Cosa di cui Marco era contento, ma nello stesso tempo spaventato, perché mi confessa di pensare che se la madre stesse bene con il suo compagno potrebbe allentare la presa su di lui. Il padre vede di buon grado che lui possa andare all’estero, per allontanarlo anche dalle sostanze, ma gli mette sempre regole e a lui le regole non piacciono. Per quello, quando vede le brutte, si rifugia dalla madre e viceversa. Marco associando, ride e arrossisce, consapevole del nuovo quadro che emerge da quel sogno, ben diverso dalle rivendicazioni di cui aveva parlato fino ad allora, e riconoscendo che si vergogna perché sa che quello che fa è sbagliato. Però odia prendere l’autobus e gli fa comodo la sollecitudine quasi soffocante della madre nei suoi confronti. È “normale” che ti facciano tutto. Tutti i suoi amici vivono così. Non aveva capito, prima di quel sogno, il significato di quel comportamento così confortevole. Un quadro dunque che noi definiamo di ipercura che la madre ha sempre attuato con il figlio e di cui il figlio beneficia, disprezzandola[3], ma nello stesso tempo diventando per lei “il suo uomo”.
Volendo dare una lettura interpretativa del sogno, alla luce dei derivati forniti da Marco, il seno che elargisce acqua rimanda facilmente all’allattamento materno che ha un senso e un tempo. Il latte, prima colostro, poco più che acqua zuccherata, con il proseguire del puerperio diventa latte che nutre e protegge l’infante. Il latte intorno ai 6, 8 mesi ritorna ad essere colostro, perde le sue proprietà, proprio per favorire il processo di distacco, soprattutto corporeo, e facilitare le successive tappe evolutive. Allattare fino a 3 anni significa per quella coppia madre-bambino prolungare oltremisura un processo naturale: oltre ad essere inutile, assume altri significati impropri, incestuosi o passivizzanti, e soprattutto può distruggere, come il sogno simbolicamente svela, il processo di autonomia che porta il bambino prima, ma anche il giovane adesso, a creare da solo le sue forme. Ovviamente il latte/acqua di cui parliamo ora si riferisce simbolicamente all’attuale comportamento che la madre assume nei confronti del figlio. Fortemente seduttivo, come il seno nudo ben rappresenta, sia nell’utilizzare un linguaggio e mezzi comunicativi più adatti ad un amante che a un figlio adolescente, sia nella “sollecitudine materna” che evita al figlio ogni fatica, anche quella di crescere. Acqua oramai che distrugge, perché fuori tempo. Come acqua sono gli alimenti percepiti e l’acquisto della casa, subito riconosciuta, inconsciamente e non solo, da Marco come una forma di “corruzione” da cui però difficilmente può prendere le distanze. Il discorso della madre può suonare così: “Figlio mio, non solo tuo padre non mi andava bene, anche se continuo a prendere gli alimenti da lui nonostante provvediamo a te alla pari. Nemmeno questo uomo con cui sto in realtà mi soddisfa. Anzi lo uso, per vantaggi economici a tuo favore, facendo di te il mio complice. In fondo – proseguendo – tu sei il mio unico uomo, il mio preferito!”. Il sogno del padre, per contro, può commentare inconsciamente non solo il comportamento paterno, che lo spinge attraverso le regole verso l’estero, ossia verso la fine della dipendenza materna, ma anche l’analisi che può evidenziare, attraverso la temporalità il setting e le regole, la sua compartecipazione al disegno materno sia per gli indubbi vantaggi quotidiani ed economici, sia per l’evitamento della separazione che viene vissuta dal giovane come una morte da cui deve sfuggire in ogni modo, a costo di rimanere “bambino” (Chasseguet-Smirgel, 1985).
Ci chiediamo con Voi: come potrà mai lasciare sua madre questo ragazzo a fronte di così tanta “devozione” materna e dei conseguenti sensi di colpa verso di lei che ogni forma di autonomia gli farà inevitabilmente provare? Potrà mai trovare il coraggio di rifiutare i vantaggi economici attuali e prospettati in nome di una sua autonomia esistenziale? A questo per ora non possiamo rispondere, ma sappiamo che Marco, purtroppo coerentemente con questi interrogativi, perde anche il secondo concorso e per la rabbia e la disperazione si fa trovare a settembre con un quantitativo ingente di hashish, dovendo conseguentemente subire pure l’arresto e la correlata messa alla prova.
Discussione
Siamo partiti da questo caso, sicuramente emblematico e tuttavia enormemente diffuso, per affrontare quelle che abbiamo denominato le follie del matriarcato, vale a dire ciò che noi denominiamo ipercura. Cosa intendiamo con tale termine? Dove finisce la sollecitudine materna e dove inizia l’abuso? In una sentenza del 2011 la Cassazione ha condannato per il reato di maltrattamento una mamma iperprotettiva e il proprio padre, nonno materno del bambino, affermando che “iperprotezione e ipercura costituiscono a tutti gli effetti un reato di maltrattamenti specie se il risultato delle eccessive attenzioni è quello di provocare un danno all’integrità psichica del minore” (Sentenza n.36503/2011). Nella sentenza emergevano limitazioni motorie e nella socializzazione, una grave denigrazione della figura paterna e un tardivo inserimento scolastico. Sebbene apparentemente lontana dal caso di Marco, questa sentenza dovrebbe, a nostro avviso, farci riflettere approfonditamente.
In campo psicologico evolutivo esistono ormai numerosi studi su fenomeni molto affini. “L’ipercoinvolgimento/protettivo (excessive care/overprotection) è uno stile di parenting intrusivo e ansioso che non permette al bambino di affrontare le sfide naturali della vita e impedisce lo sviluppo delle abilità di gestione delle difficoltà” (Patrizi et Altri, 2010). In questa categoria rientrano l’intrusività, l’incoraggiamento alla dipendenza e l’esclusione del figlio dal confronto con l’esterno (Parker, 1983). Alcuni autori, attraverso la meta analisi su campioni clinici, hanno suggerito come i disturbi internalizzanti, la depressione e l’ansia, che spesso sottostanno l’uso di sostanze, sono correlati ad una iperattivazione dell’attaccamento legata alla passività e allo scarso sviluppo di sé (Van Jzendoorn, Bakermans-Kranemburg, 2008). Se un genitore infatti esercita un eccessivo controllo psicologico sul figlio di fatto ne nega l’indipendenza psicologica (Barber, 1996, Barber e Harmon, 2002; Kering, 2003). L’iperprotettività, intesa ancora come inibizione del comportamento e incoraggiamento alla dipendenza, rientra in questa categoria, anche perché vengono meno le caratteristiche supportive proprie di uno stile genitoriale che favorisce l’autonomia e la crescita psicologica (Grolnick et al, 2002; Gronlick e Ryan, 1989; Pomerantz e Rubble, 1998 Grolnick, 2003). Ancora su questa linea altre ricerche rilevano come l’ipercoinvolgimento/protettivo al pari della depressione materna, delle ansie genitoriali e degli stress familiari, sia predittore della presenza di difficoltà internalizzanti nei bambini dai due ai quattro anni (Bayer et al, 2006). In ultimo ricordiamo la Cordato (2010) che affronta un campione italiano di 1570 studenti, di età compresa tra i 18 e i 38 anni, sottoponendolo ad una serie di test standardizzati e misurandone lo stile di attaccamento, la scale del disimpegno morale e se vivessero a casa, autonomamente o in condizioni di mediazione, come il dormitorio dell’università. Gli studenti che vivono con i genitori sono risultati avere punteggi più alti relativi all’attaccamento ansioso/preoccupato, in linea con altre ricerche (Maione e Franceschini, 1999; Barber e Harmon, 2002; Cassidy, Shaver, 2008), mentre quelli che vivono autonomamente sono meno ansiosi, più altruisti e più felici. La ricercatrice afferma dunque che “numerose altre ricerche, sia longitudinali che correzionali, [dimostrano che] un figlio cresciuto in un ambiente iperprotettivo-intrusivo, sviluppa quello che Bowlby (1982) chiama “attaccamento insicuro” e che questo è correlato con il disimpegno civico e morale, deboli convinzioni personali e infelicità.
Sempre in linea con questi risultati, sono a nostro avviso i lavori di alcuni scienziati italiani sociali che hanno studiato il fenomeno della cosiddetta famiglia lunga (Scabini, Donati, 1988). Molti ricercatori si sono precisamente interessati a quel fenomeno, molto italiano, della permanenza dei giovani nelle case familiari anche in età avanzata. In un’interessante studio effettuato in Italia da Scabini e Donati (1988) il fenomeno della famiglia lunga risulta problematico in quanto ostacola il reale processo di emancipazione dei figli nei confronti dei genitori. E ancora più gravemente, a nostro parere, caratterizza giovani che non riescono ad assumersi le responsabilità tipiche di un adulto, costruirsi un nucleo familiare stabile, storicizzato, scegliere un percorso formativo portandolo a termine e scegliendo una professione a scapito di altre, e ridotti a “vagare ad libitum nell’ossimorico” (Scabini, Donati, cit.). Altri autori hanno parlato invece di diffusione del “nichilismo”, ossia mancanza di prospettive, di pianificazione del futuro, di inconcludenza, di ripiegamento nel passato e nella dorata infanzia (Galimberti, 2007; Testoni, 1997). Oppure il fenomeno raccontato da Alesina e Ichino (2009) che vede i ragazzi italiani scegliere la facoltà più vicina a casa, anche se meno appetibile, a differenza dei loro coetanei inglesi o americani che scelgono la facoltà più prestigiosa, anche se lontana miglia e miglia dalla famiglia d’origine. Infine si può collocare in questo stesso ambito di riflessione l’espandersi del fenomeno dei Neet (Not engaged in Education, Employment or Training) che in Italia nel 2013 raggiungevano il 22,2%, la percentuale più alta di tutta Europa, dove la media si attesta al 13% (Rapporto Openpolis, 2014)[4].
Crediamo ora di interpretare il vostro interrogativo conseguentemente a tutto quello che abbiamo detto finora. Il concetto di ipercura può estendersi alla famiglia di Marco o a quella dei tanti pazienti che noi vediamo nei servizi per le Dipendenze o nei DSM? Che differenza c’è fra situazioni fortemente patologiche e quello che una volta si chiamava semplicemente “viziare” i figli? Il passaggio dalla famiglia basata sulla regola a quella odierna basata sull’affettività, effettuato proprio dalle nostre generazioni, può avere come contraltare una eccessiva enfasi sui bisogni personali, sulla estremizzazione delle libertà individuali, tipiche della logica endogamica? L’assenza di regole e confini precisi, l’indifferenziazione di ruoli e di livelli generazionali, non equivale di fatto ad abbattere le barriere naturali ai desideri incestuosi dei figli così come dei genitori? È vero che, come dicono alcuni autori, chi intraprende una strada di dipendenza o da sostanze o chi da comportamenti o attraverso la violenza o la passività non importa, cerca in altri termini la propria e l’altrui morte, inclusi i foreign fighters[5], siano i figli del benessere (Testoni e Zamperini, 2003; Orsini, 2010) e non soltanto i figli dell’incuria o della guerra?
È necessario a questo punto provare a delineare ciò che secondo noi segna il confine fra materno e matriarcato, fra cura e ipercura, confrontandoci, anche se brevemente, con il dibattito intorno all’etica della cura, intesa come care.
Il termine, com’è noto, è stato introdotto per la prima volta da Carol Gilligan nel 1982, in antitesi con lo schema dello sviluppo morale di Lawrence Kohlberg (1976), di cui l’autrice era allieva e collaboratrice. Per Kohlberg, in linea con Piaget, lo sviluppo morale si snoda verticalmente lungo 6 stadi. La persona morale matura è in grado di assumere una prospettiva imparziale e distaccata, e di ragionare in senso kantiano su principi astratti e universali, nella prospettiva dell’altro generalizzato, come direbbe G.H. Mead (Casalini, 2015). Le donne invece si fermano al 3° stadio poiché ragionano in virtù del mantenimento delle relazioni interpersonali e della dedizione agli altri. La Gilligan contesta a Kohlberg sia la metodologia, poiché aveva intervistato solo maschi, sia il costrutto metateorico. Effettivamente le donne sono generalmente più interessate alla relazione e alle implicazioni emotive-affettive che le diverse scelte morali comportano. Questa differenza però non è un disvalore, ma una differenza qualitativa che necessita di parametri specifici e che l’autrice denomina etica della cura. Vorremmo sottolineare che non sono le scelte in quanto tali ad essere esaminate dagli autori, ma i ragionamenti morali che conducono alle diverse scelte. Scrive l’autrice: “è comprensibile dunque come una morale dei diritti e della non ingerenza possa apparire minacciosa per la donna, per la sua potenziale giustificazione dell’indifferenza e del disimpegno. Al tempo stesso diventa comprensibile come, da un’ottica maschile, una morale della responsabilità appaia inconcludente e dispersiva, data la sua insistenza sul relativismo contestuale” (ib:30). La Gilligan, però, rimanendo in una logica della differenza, esalta la diversità di genere e in qualche modo auspica l’integrazione fra le due logiche morali. “Comprendere come la dinamica dello sviluppo umano scaturisca dalla tensione fra responsabilità e diritti significa vedere l’integrità di due modalità di esperienza parallele ma alla fine convergenti. Mentre l’etica giusnaturalistica parte dalla premessa dell’eguaglianza … l’etica della cura responsabile poggia sulla premessa della non violenza (a nessuno deve essere fatto del male)” (ib.).
Il lavoro della Gilligan ha certamente dato l’avvio ad un intenso dibattito. Dopo di lei moltissime autrici si sono confrontate con l’etica della cura. Alcune come la Ruddick e la Kittay hanno confermato il concetto di differenza e hanno cercato di definirne gli ambiti specifici sia in ambito filosofico sia sociale in senso più ampio. Per Sara Ruddick (1989) esiste un pensare materno: pragmatico, poiché legato all’agire quotidiano; ambivalente, perché gli aspetti di cura e gli aspetti di lavoro si intersecano e si calano in una società che non supporta se non minimamente il lavoro né lo riconosce come bene; diseguale, perché fondato sulla neotenia e sul bisogno; pervasivo, perché i tempi e le responsabilità continue possono massimizzare la concretezza a scapito della riflessione. La cura materna implica dunque il riconoscimento della vulnerabilità del figlio e sottende che la madre può divenire essa stessa causa prima del benessere come del malessere del figlio. L’autrice riconosce dunque che il pensiero materno ha il compito di riflettere su tale ambivalenza, riconoscendone le radici, al fine anche di salvaguardare i figli, che proprio per la loro vulnerabilità sono più esposti e indifesi verso il potere esercitato da una madre. Se le donne riuscissero in questo, il pensiero materno potrebbe diventare modello per un vivere civile più umano e pacifico. Anche la Kittay (1999) si colloca nella logica della differenza. Per l’autrice statunitense, madre di una figlia nata con una grave disabilità, l’etica della cura, che non a caso chiama Love’s Labor – il lavoro dell’amore – si basa su alcuni presupposti fondamentali. Esso è precisamente un lavoro, poiché “l’impegno affettivo […] si sovrappone al “lavoro di dipendenza”, ma non è identico” (1999:53). Per sua natura non è reciproco, in quanto prevede la vulnerabilità e la diseguaglianza. La cura della moglie al marito, per l’autrice, non rientra infatti in questa categoria. Prototipo infatti è la pratica materna, concetto ripreso proprio dalla Ruddick, sebbene non solo le donne possono esercitarla. Scrive la Kittay: “La relazione materna diventa un paradigma, un elemento analogo, per le relazioni sociali in cui è centrale la vulnerabilità” (1999:124). In questo caso le caratteristiche sono le tre “C” di Jane Martin: care, concern e connection ossia cura, preoccupazione e relazione. Tuttavia, o forse proprio per questo, come la Ruddik, anche la Kittay è ben consapevole dei rischi di questa posizione, tanto che parla della possibilità che il potere si possa trasformare in dominio. O che la donna, colei che socialmente si occupa della cura in quanto soggetto svantaggiato, possa diventare dominata. L’esempio, raccontato dall’autrice, del ricordo della propria madre che stava in piedi senza partecipare al pasto, mentre il marito/padre e la figlia mangiavano, è veramente emblematico e fa riflettere[6]. Infine, sempre in quegli anni, scrive la Nel Nooddings (1984) che inserisce il tema della differenza addirittura in un’ottica naturalista e della differenza, arrivando ad affermare che l’etica della cura non esige reciprocità, poiché il prendersi cura dell’altro prevede il disinteresse – senza ricevere nulla in cambio – e implica fare posto dentro di sé all’altro. Si potrebbe pensare, dal punto di vista morale, che il bene dell’altro corrisponda al proprio bene: il dono di sé. Dal punto di vista psicologico al concetto di reverie di Bion, la madre come colei che accoglie e simbolizza. Quest’autrice è meno nota perché, se anche il femminismo può accettare il concetto di differenza, mal digerisce il concetto di natura, anche fra le esponenti più moderate, poiché evoca il rischio di inserire la donna in un “destino” già troppo noto e sperimentato nelle società patriarcali.
Alla Gilligan però hanno risposto altre autrici che hanno negato la teoria della differenza. Dalla Chodorow (1978, 1994) in poi, la maternità viene vista infatti come un portato culturale e il termine caregiver, anche grazie alle teorie psicologiche relazionali di origine psicodinamica, si sostituisce alla madre, nella sua accezione più vicina a quella usata da Bowlby. Di tale avviso è la Joan Tronto (1993) che, criticando proprio l’ottica della differenza e mettendo al primo posto il riconoscimento del carattere non naturale dell’etica della cura attribuito alle donne al fine di escluderle dalla sfera pubblica, propone di ricondurre tale concetto dall’ambito privato all’ambito pubblico e dunque a quello politico. Lo chiama infatti “il potere dei deboli” (cit: 136). Anche la Tronto[7] è però consapevole dei rischi insiti nella cura delle donne. “… la maggior parte di coloro che prestano cura finirà per arrabbiarsi. […] chi presta cura è spesso irritato a causa dei suoi stessi bisogni non soddisfatti” (cit:160). Se tale rabbia non è riconosciuta il rischio è che venga poi indirizzata sulle persone di cui ci si occupa. Come molti anni prima aveva scritto la A. Rich, emergono nuovamente i sentimenti di odio e amore che le donne nutrono per il “mestiere di madre”, ma anche la consapevolezza che “l’ineguaglianza origina relazioni diseguali di autorità, dominazione e subordinazione” (cit:154). Centrale è quindi la riflessione morale sul bisogno e sul sacrificio. Infine, citiamo Susan Moller Okin (1989), esponente dell’area più estrema del pensiero femminista dell’etica della cura, che preferisce risolvere il problema immaginando una società androgina, perché solo abbattendo le differenze può sussistere un’equa divisione dei compiti e dei doveri, finora appannaggio della donna, per questo penalizzata ed emarginata. Ci sembra la scelta attuale della società post moderna.
Tralasciamo in questa sede gli aspetti sociali e politici del dibattito sull’etica della cura che prevedono non pochi addentellati di cui faremo solo un telegrafico accenno. È possibile conciliare l’ottica endogamica con quella esogamica? Quanto una società come la nostra può farsi carico di un walfare basato sull’etica della cura? Quanto non si corre il rischio di allargare ad libitum l’assistenzialismo e le ricadute di passivizzazione che esso può comportare? Hanno ragione alcuni teorici della disabilità, che hanno criticato l’ottica familiare della cura, preferendo inserire l’etica della cura in un ambito di vero e proprio lavoro con l’introduzione dell’assistente personale per le persone disabili proprio come espressione di libertà e autonomia? E ancora, le donne che al di là di ogni teoria o buon intento ancora oggi si impegnano nella cura come occupazione principale, soprattutto in un’ottica endogamica, riusciranno mai a fare pace con i sentimenti ambivalenti, di cui tutte le autrici citate parlano, che questo compito comporta? In un’ottica della differenza, esiste per contro una cura paterna che sia specifica e peculiare degli uomini e in che cosa può consistere? Quando parliamo di diritti civili, che sono poi principalmente legati ai soldi, al “mantenimento”, alla reversibilità della pensione, all’eredità, di cosa stiamo esattamente parlando? Parliamo forse, mi si perdoni la franchezza, di salario familiare?
Vogliamo allora riprendere soltanto alcuni aspetti psicologici, che sottostanno a nostro avviso all’etica della cura, a questo punto nella sua accezione più stretta. Problemi che oggi sono diventati prevalenti, e che però inspiegabilmente figurano assenti nel dibattito sia in campo psicologico che in quello filosofico.
In primo luogo, la cura dell’altro può essere esercitata in funzione di un narcisismo autoreferenziale, io esisto perché sono il centro del tuo mondo, oppure, poiché mi prendo cura di te, mi aspetto che tu non mi lascerai mai. In questo caso, l’ipercura non è altro che la passivizzazione dell’altro, è minare la sua autonomia e offrire insieme la ricompensa che trattiene il figlio come la casetta di marzapane tratteneva i famosi Hansel e Gretel (Grimm, 1951), il cui destino, non a caso, è di essere poi divorati dalla strega[8]. In altri termini devi rimanere figlio bisognoso di cura per tutta la vita. Anche la Kittay, infatti, sembrerebbe senza la minima consapevolezza dell’assurdità di tali affermazioni, parla di tradimento del figlio verso la madre a proposito di un giovane che aveva lasciato, andandosene, la casa materna[9]. La madre, ci dice l’autrice, “facendo proprie le gioie e le sofferenze del figlio e investendo la propria vita emotiva su di esso agendo per conto suo” è ancora più devastata da tale tradimento. Marco difatti teme di andarsene perché sente che la madre lo vivrebbe precisamente come una infedeltà, così come in lui il distacco evoca la propria morte. In realtà non è necessario rimanere nella casa materna per rimanere invischiati in un eterna fanciullezza. I nostri servizi, ma direi l’intera società attuale, è piena di figli e figlie che vivono in uno stato di eterna adolescenza, affermando in modo del tutto egosintonico: “mia madre è la persona più importante della mia vita”. In tal senso la responsabilità morale delle donne, delle madri, è a nostro avviso centrale e necessiterebbe di un confronto onesto, privo di ideologia e che riconosca l’enorme potere relazionale delle donne, altrettanto pericoloso quanto il potere maschile. Assioma a nostro avviso molto diffuso nella clinica, ma assente completamente nel dibattito teorico. L’integrazione auspicata dalla Gilligan tra etica della cura e giustizia, non significa tanto, a nostro avviso, il riconoscimento del bisogno dell’altro unito alla consapevolezza che esiste una morale universalistica che trascende il singolo e i bisogni egoistici che ognuno di noi si porta dentro. L’etica della cura, per potersi veramente denominare etica, necessita di integrare oltre alla giustizia, universale, l’etica in quanto esistenza di leggi e di regole che la persona umana si porta dentro e che esige il riconoscimento del senso che ogni relazione ha, dei ruoli che vengono esercitati, dei confini generazionali che vanno rispettati. Comporta l’accettazione del senso del limite che le “regole di base della vita”, così come descritte da Robert Langs, contribuiscono a dare, nel confronto continuo e capillare sui comportamenti quotidiani e sul significato profondo che questi hanno. L’etica della cura implica a nostro avviso il riconoscimento dell’altro, in quanto tanto amato proprio perché lasciato libero di andare verso la vita e verso un uomo o una donna che diventa il centro della propria esistenza, in senso esogamico. In tale prospettiva proporremmo (Berivi, Grassi, comunicazione personale) la formulazione integrata di “Etica del senso della cura”.
In secondo luogo, l’ipercura non è solo un “eccesso cura”, una incessante elargizione di beni e di soccorso, che di per sé può generare comunque dipendenza, scarsa autonomia, insicurezza. Si entra nell’ipercura, altro aspetto della mera relazionalità (Berivi, 2011), ogni volta che la madre o il padre o la famiglia passano da una dimensione verticale dell’esistenza, necessaria per la crescita e lo sviluppo del senso morale, ad una orizzontale dove è vero tutto e il contrario di tutto, dove il sistema morale viene fortemente compromesso in quanto relativizzato, dove i vantaggi materiali secondari rendono impossibile, ribadisco, impossibile lo svincolo. Tale sistema è frutto dell’eterno senso di rivalsa che le donne nutrono verso i loro uomini che le può portare all’abbattimento di ogni principio paterno, anche soltanto coltivando nei figli l’acrimonia verso il maschile, verso il padre, o creando nel figlio l’immagine di “uomo ideale” nel maschio così come nella femmina. Se il padre, attivamente da parte della madre e/o per propria scelta, è marginalizzato, la barriera incestuosa è di fatto rimossa per lasciare il campo alla fantasia masturbatoria centrale ben descritta dai coniugi Laufer (1984)[10], facile da immaginare proprio nelle realtà in cui le madri sempre più spesso rimangono effettivamente sole con i figli, come nelle famiglie monoparentali.
Conclusioni
La nostra tesi è precisamente questa: sebbene gli studi sull’attaccamento abbiano scoperto ed enfatizzato l’abuso, sottolineando il maltrattamento e l’incuria, che rimangono ovviamente importanti ambiti di possibile induzione alla psicopatologia, l’ipercura non di meno rappresenta la follia di un regime matriarcale, attualmente estremamente diffuso e nascosto, che di fatto soppianta quello materno e ne diventa il lato oscuro, come ben configurato nelle favole dalla figura della matrigna nelle sue differenti declinazioni (Von Franz, 1969, 1972). Gli esiti sono la confusione di identità e le forme importanti di psicopatologia, come l’uso di sostanze e i disturbi di personalità nei casi più gravi, oppure i problemi scolastici, le difficoltà relazionali fino alla promiscuità, le difficoltà di autonomizzazione, i problemi con l’autorità nei casi più lievi, ma anche più diffusi attualmente nella nostra società.
Senza queste riflessioni il nostro convincimento è che l’etica della cura, le relazioni materne, e quelle familiari più in generale, si trasformino nell’etica del potere matriarcale, che in antagonismo con l’etica patriarcale, altrettanto ferale e perdente, rischia di portare gli uomini come le donne in un mondo in cui ogni senso viene abbattuto e la mera relazionalità trasforma il mondo in un universo anale così come ci avvertiva la Chasseguer-Smirgel nel suo bellissimo libro “Creatività e perversione” (1985). Vale la pena di citare un suo passo. “Ho affermato che cercare di sostituire la genitalità con lo stadio che normalmente la precede equivale a negare la realtà. È un tentativo di sostituire un mondo di inganno e di finzione alla realtà”. Il pianeta delle scimmie ” prende il posto del mondo degli uomini. Il disordine che segue, la confusione tra i valori, l’abolizione delle differenze: tutto dev’essere ascritto alla regressione allo stadio sadico-anale. Si tratta di sfuggire all’ordine paterno. E questo mondo senza padre, senza procreazione genitale è anche un mondo senza causalità. Prendo a prestito un’idea semplice ma efficace espressa da Bela Grumberger, che l’ha ripetuta in molte occasioni: la causa sta all’effetto come il padre sta al figlio. Nell’universo che sto descrivendo il mondo è stato introdotto in un gigantesco meccanismo triturante (l’apparato digerente) ed è stato ridotto a particelle omogenee (escrementizie). Quindi tutto si equivale” (1985:192-3).
Riprendiamo ora, in conclusione, l’immagine del romanzo di Doris Lessing, “Le due nonne”, che parla dell’amore incestuoso di due madri vissuto ognuna con il figlio adolescente dell’altra. Il figlio mentre fa l’amore con la madre dell’amico d’infanzia, piange e poi grida: “No, no, non pensarci neppure. Io non ti lascerò invecchiare”. Risponde la donna: “[…] prima o poi dovrà succedere”. No, risponde con furia il ragazzo piangendo, non glielo avrebbe mai permesso. “E così io non posso invecchiare, eh, Jan? Non ho il permesso, eh? Pazzo, questo è pazzo. […] E quando fu sola [Roz], provò una sorta di disagio, perfino di soggezione. Era davvero una pazzia, la richiesta di Jan. Sembrava proprio che rifuggisse l’idea che lei potesse invecchiare. Pazzo! Ma forse la follia è una delle grandi ruote invisibili che fanno girare il mondo” (Lessing, 2003:42).
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[1]Parlare di matriarcato non significa parlare del potere delle donne in quanto tali, ma di un sistema di valori matriarcali che può essere agito dalle donne come dagli uomini. In questa relazione però l’enfasi sarà, per scelta di impostazione della scrivente, proprio sulle donne in quanto madri.
[2]La prima volta che il padre lo ha portato al Servizio specialistico la diagnosi non era invece così bonaria. Gli aspetti manipolativi e la scarsa motivazione al cambiamento del giovane erano emerse chiaramente, tanto da non proseguire l’intervento in quanto mancavano i presupposti minimi. Tale diagnosi era stata comunicata al giovane in via diretta e da solo, mentre ai genitori era stata data una motivazione concordata che segnalasse le problematiche senza che emergessero particolari confidenziali. Dopo 2 anni circa il ragazzo in modo autonomo e solo con l’aiuto del padre riprende i contatti con il Centro, affermando di essere cambiato e di voler affrontare i suoi problemi.
[3]Il disprezzo verso la madre, nascosto ma molto forte, diventa a nostro parere il disprezzo per le altre donne.
[4]Per inciso, questi studi, naturalmente, sono contestati dall’altra tesi secondo la quale il permanere dei figli nella famiglia d’origine sia la conseguenza diretta della crisi economica degli ultimi anni. Tuttavia, Francesco Giavazzi nella recensione al libro di Alesina e Ichino si chiede, e noi con lui, perché la spesa italiana del Walfare rappresenta il 6%, mentre negli altri paesi arriva al 20%. Oppure perché la quota ore che le donne dedicano al lavoro domestico da noi è il doppio ad esempio di altri paesi mediterranei coma le Spagna. Risulta anche che in Italia ancora molte donne abbandonano il lavoro o scelgono penalizzanti part time per poter accudire figli, anziani, nipotini, ecc. E’ soltanto responsabilità della morale cattolica che l’Italia non riesce a cambiare? O sono le donne che faticano a cambiare mentalità come suggeriscono le giovani economiste Fernandez, Fogli, Olivetti (2009).
[5]Come sostiene Alessandro Orsini, sociologo esperto di terrorismo, sul Messaggero del 20 novembre 2015, dopo il massacro di Parigi del 13 novembre 2015.
[6]Ci sembra davvero una versione molto speciale, estrema, della “devozione” materna. Tanto speciale da segnare la giovane Kittay?
[7] L’autrice, per inciso, critica la morale kantiana poiché mette l’uomo e la ragione al centro della “piena e autentica morale” (1993:60) e rivaluta gli autori settecenteschi che lo precedettero che “mostravano ancora i sentimenti di vicinanza, sensibilità morale e attaccamento agli altri e alla comunità che spesso sono attribuiti alle donne (cit:61). Solo la “simpatia”, o forse dovremmo chiamarla empatia, può rendere le persone capaci di estendere l’etica della cura a tutti i simili, “oltre il nostro gruppo di appartenenza […] questione fondamentale per la vita morale contemporanea” (cit:63).
[8]“Ma aggressività è anche la possessività escludente determinata da eccesso d’amore, di un amore malsano, totalizzante, che avvinghia anziché abbracciare” (Votrico, 2004:93)
[9]Peraltro, il ragazzo si fa arrestare per reati. Nella nostra ottica, il ragazzo in realtà non lascia la madre, ma anzi il suo comportamento è proprio funzionale a rimanere per sempre figlio, come afferma la Chasseguet-Smirgel (1985)
[10]Sempre Marco, in un colloquio, mi riferisce dell’abitudine degli adolescenti di parlare e fantasticare sulle MILF (Mother I’d like to Fuck), ossia donne adulte, madri dei loro amici, con cui poter avere rapporti sessuali virtuali. Anche in internet esistono siti di pornografia con donne molto grandi di età, il cui target sono proprio i giovani adolescenti.
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